Jasper Morrison
Back to the future #11

5 Aprile 2013

A grande richiesta, abbiamo deciso di pubblicare sul sito le lunghe e straordinarie interviste apparse sul magazine cartaceo dal 2009 al 2011. Quaranta trascinanti conversazioni con i protagonisti dell’arte contemporanea, del design e dell’architettura. Una volta alla settimana, un appuntamento da non perdere. Un regalo. Oggi tocca a Jasper Morrison.

Klat #05, primavera 2011.

Jasper Morrison è il tipo di persona che preferisce passare il suo tempo in un alberghetto anziché in un hotel di design. “È una questione di atmosfera”, dice, “gli spazi firmati mi mettono a disagio”. Non è il solo, ma un’affermazione del genere fatta proprio da un designer, per di più uno decisamente famoso, fa pensare. Il fatto è che nell’Era dei Celebrity Designer, i tipi supereleganti e modaioli che mai si farebbero vedere in giro se non in luoghi superglam sono diventati la norma. E in un simile panorama, Jasper Morrison certo si distingue. Dal punto di vista professionale, si distingue per il suo design pulito, quasi austero (e spesso leggermente ironico). Da quello personale, per il fatto di non esitare ad ammettere con orgoglio il suo amore per tutto ciò che è normale. Per Jasper Morrison, l’aggettivo “normale” è un grosso complimento. Durante la sua ormai venticinquennale carriera, ha progettato di tutto: mobili, sistemi d’illuminazione, sanitari, oggetti elettronici, accessori per la casa e per la moda, e persino sistemi di trasporto urbano. E malgrado l’enorme quantità di oggetti realizzati, il cinquantunenne inglese non ha mai sviluppato una “griffe” immediata e riconoscibile, applicabile a ogni categoria di prodotto: quella che molte aziende cercano, e che tanti designer sono più che felici di fornire, perché rappresenta un valido supporto alle acrobazie del marketing. Uomo riservato, apertamente critico nei confronti di un approccio marketing-oriented alla professione, Jasper Morrison non deve certo nulla alle PR se ha percorso tanta strada da quando, all’età di sedici anni, ha deciso di diventare un designer. Spinto inizialmente da una specie di sogno romantico (“volevo trascorrere le giornate camminando per le strade del mondo in cerca di ispirazione”), non è mai stato portato per le scuole che insegnavano un approccio “problem solving” tradizionale, ed è cresciuto professionalmente nel rispetto estremo per il passato e nella curiosità per tutto ciò che gli accadeva intorno. E oggi ne è più che sicuro: il valore più alto a cui il design può aspirare è la normalità. O, per meglio dire, la supernormalità. “L’oggetto Super Normale”, scrive Jasper Morrison in Super Normal, il libro-catalogo della mostra omonima del 2006 curata assieme a Naoto Fukasawa, “è il risultato del lungo percorso evolutivo, formale, che caratterizza gli oggetti d’uso quotidiano: non vuole creare una spaccatura nella storia della forma, cerca piuttosto di farne una sintesi. E lo fa a partire dalla consapevolezza del proprio ruolo all’interno del sistema degli oggetti”.

“La normalità è più frequente nel mondo degli oggetti completamente anonimi, eppure è possibile anche nell’universo del progetto: non soltanto è preferibile, ma sembra addirittura offrire un orizzonte nuovo al design”. Queste sono le tue parole, pubblicate nel catalogo della mostra Super Normal. Come descriveresti questo “intero mondo nuovo” che la normalità può offrire al design?

Il risultato è migliore quando il designer non si preoccupa di lasciare ovunque la sua firma. Gli oggetti firmati risultano spesso meno riusciti. Lo stesso accade agli ambienti di design, quando l’ego creativo è troppo presente: è un errore che spesso i progettisti fanno senza nemmeno volerlo. Ti faccio un esempio. Un giorno, un sushi bar vicino al mio studio di Parigi ha comprato quaranta Air-Chair, sedie che ho progettato per Magis e le ha messe sul marciapiede. Peccato che fossero tutte rosa! Non appena le ho viste, mi sono quasi vergognato e mi sono sentito colpevole: che attirassero l’attenzione era indubbio, però il colore era diventato dominante e la sedia aveva perduto il suo senso. Quando mi sono reso conto di questo inquinamento ambientale, ho capito che eliminare l’elemento “designer” era un imperativo quanto il dare priorità alle performance dell’oggetto. In fondo, se vuoi acquistare una sedia ti interessa di più chi l’ha progettata o se è comoda e si adatta alla tua casa? Da un punto di vista creativo, la soppressione dell’ego è sorprendentemente efficace per la creatività! L’obiettivo è la Normalità, anzi la Super Normalità. Con questo mi riferisco all’opposto di quanto è “speciale” in termini di forme e materiali, perché gli oggetti così concepiti sono più performanti nell’uso quotidiano sui tempi lunghi. Si tratta, insomma, di progetti più riusciti.

Hai nominato spesso, come prime fonti di ispirazione, lo studio in stile modernista di tuo nonno e una mostra di Eileen Grey al Victoria and Albert Museum. Però hai anche ammesso il fascino subito alla prima mostra di Memphis  a Milano nel 1981. Non esattamente uno “stile normale” in quella mostra! In che senso questi due approcci opposti hanno influito sulla tua creatività?

Gli interni inglesi in cui sono cresciuto erano molto bui, con molta tappezzeria. Non mancavano mai tende pesanti, moquette e tappeti. Nella sua casa, mio nonno aveva una stanza moderna. Il suo registratore Braun, i pochi tappeti bianchi a pelo lungo, il pavimento di legno e i mobili mi facevano un certo effetto quand’ero piccolo, sebbene a un livello non del tutto conscio. E così, quando molti anni più tardi ho visto una mostra di Eileen Grey al V&A ho potuto collegare per la prima volta quell’impressione infantile con il linguaggio del design modernista e mi è sembrato di capire che cosa stava facendo lei. Memphis, invece, ha rappresentato più una provocazione che un’ispirazione. Era il contrario di tutto quello che doveva essere il design secondo gli insegnamenti che avevo ricevuto. Frequentavo il Salone da qualche anno prima del lancio di Memphis, e avevo già visto Studio Alchimia, che era più radicale di Memphis. Con Memphis, però, a risultare più scioccante fu la contraddittoria combinazione tra le ambizioni commerciali del gruppo e la quasi non attuabilità dei suoi progetti. Ti sentivi respinto (o perlomeno io mi sono sentito respinto!) dagli oggetti di Memphis e allo stesso tempo immediatamente liberato dalla totale frattura delle regole che esprimevano. Dopo Memphis, ho cercato di concentrarmi sulla teoria opposta, secondo la quale il design dovrebbe essere pratico e alla portata di tutti. Senza Memphis, sarebbe stato molto più difficile per me trovare la mia strada.

Jasper Morrison FSB 1144 series Handle

Jasper Morrison, maniglia, mod. 1144, 1990. Design per FSB.

Oggetti pratici e alla portata di tutti. È per questo che hai lavorato soprattutto per l’industria, anziché autoprodurti?

Da studente, non avendo accesso alla produzione industriale, ho provato a simularla con piccole produzioni di alcuni miei lavori. Un’impresa faticosa e poco redditizia, che mi ha insegnato a concentrarmi sul lavoro di designer e a trovare aziende che volessero realizzare i miei progetti. A Londra, negli anni Ottanta, c’erano due persone che producevano su piccola scala: Sheridan Coakley (che nel 1985 aprì l’esclusivo SCP) e Zeev Aram (dell’Aram Store and Gallery). Accettarono alcuni dei miei progetti. Poi, la rivista Domus ne pubblicò altri in un articolo di Manolo De Giorgi che attirarono l’attenzione di un produttore di maniglie tedesco, FSB, il quale mi contattò, seguito poco dopo da Cappellini e Vitra. Suona molto semplice raccontato così, ma non lo è stato. Ho lavorato sodo per arrivarci.

Quando hai cominciato avevi una tua precisa visione del design? E se sì, come si è evoluta nel corso degli anni?

All’inizio avevo una visione esclusivamente romantica della professione. Ero convinto che si trattasse per lo più di ubriacarsi tutte le sere e trascorrere le giornate passeggiando lungo le strade del mondo, in cerca di ispirazione. Viaggiare, parlare con la gente e accogliere tutto ciò che mi circondava era fondamentale per l’ispirazione, mentre stare seduto davanti a un foglio bianco rappresentava la morte del pensiero creativo. Non mi sbagliavo del tutto, e credo ancora che il design comporti una fase in cui la realtà viene riprocessata, in cui si valutano gli esempi precedenti e si cerca di migliorarli, e ciò può essere realizzato soltanto attraverso l’esperienza diretta, anziché con lo studio accademico. Per me, la parte più eccitante rimane ancora osservare come vivono le persone, di cosa si circondano, vedere che influenza hanno gli oggetti sull’atmosfera quotidiana: è questo che mi spinge a fare cose nuove, e a farle bene. Comunque, in questo momento sono molto più zen riguardo all’ispirazione e non faccio più sforzi coscienti per trovarla: cerco di essere molto spontaneo nella fase di progettazione, di decidere in fretta, basandomi sull’istinto e sull’esperienza.

Ti sei laureato in Design alla Kingston Polytechnic Design School, ti sei specializzato al Royal College of Art. Cosa pensi del tuo percorso di studi? E secondo te, che cosa dovrebbe dare una buona scuola?

Le scuole che ho frequentato erano ottime, e mi hanno insegnato molto. Tuttavia, entrambe erano carenti per quel che riguarda le nozioni sui processi industriali. Importantissime. Credo che questa carenza fosse imputabile al fatto che quasi nessuno degli insegnanti aveva un’esperienza diretta della progettazione industriale. Terminati gli studi, questa per me è stata la conoscenza più difficile da acquisire. Forse oggi è più facile grazie a Internet, tuttavia continuo a pensare che le scuole di design dovrebbero privilegiare gli aspetti tecnici del lavoro piuttosto che quelli creativi.

Qual è stato il tuo primissimo progetto di design industriale a entrare in produzione? E quanto spesso, lavorando per l’industria, si rende necessario accettare dei compromessi sul design?

Il primissimo dei miei progetti prodotti industrialmente è stato una maniglia per FSB. Dopo la pubblicazione dei concept in Domus, Jürgen Braun mi scrisse per dirmi che riteneva il mio progetto adatto alla produzione. Durante il primo incontro, mi chiarì subito la necessità di alcuni compromessi. La proporzione della maniglia, per esempio, doveva subire un drastico cambiamento, per poter risultare compatibile con il loro sistema di inserimento del meccanismo a molla. Acconsentii ai cambiamenti, perché pensavo che un designer dovesse “farsi forza” e sopportare le condizioni imposte dalla produzione. Ma il cambiamento aveva ucciso il design. Ancora oggi, non so se e come avrei potuto salvarlo, comunque è stata una prima lezione molto utile. Durante lo sviluppo di un progetto ci sono sempre momenti di compromesso, ed è importante non pensare alla propria idea come al Titanic subito dopo lo scontro con l’iceberg. Di solito, c’è un modo per trasformare la necessità di accettare un compromesso nell’opportunità di rendere il progetto più reale senza tradirne la natura.

Quindi è stato Jürgen Braun il primo a credere nel tuo talento. Eppure il mondo ricorda soprattutto l’affinità elettiva fra te e Giulio Cappellini. In che modo è cominciato il vostro rapporto e quale influenza ha avuto su di te, sia dal punto di vista professionale sia da quello personale?

L’incontro con Giulio Cappellini ha rappresentato uno degli eventi determinanti della mia carriera. La sua azienda cominciava ad avere già un’ottima reputazione grazie alla collaborazione con Rodolfo Dordoni e alla produzione dei lavori di Shiro Kuramata. Era stato il primo industriale italiano ad accogliere designer stranieri e per mia fortuna fui uno dei primi con cui scelse di lavorare. Credo che Giulio avesse visto l’articolo su Domus che parlava dei miei primi lavori, e rimase colpito dalla poltrona Thinking Man’s Chair, che infatti scelse come primo pezzo da mettere in produzione. Era il 1986, due anni dopo la laurea, e non è facile spiegare il senso di incredulità che provavo per il fatto di collaborare con un’azienda italiana. Avevo sentito parlare di un solo designer inglese che lavorava in Italia (Rodney Kinsman), ed è inutile dire che fra le mie ambizioni c’era quella di diventare il secondo…

Jasper Morrison Cappellini Thinking Man's Chair

Jasper Morrison, Thinking Man’s Chair, 1986. Design per Cappellini.

Molti giovani designer dicono che oggi è estremamente difficile farsi notare dalle aziende. Secondo te è più difficile oggi di quanto lo fosse allora?

Ne sono sicuro, perché la competizione è diventata davvero estrema. Per darti un’idea, negli anni Ottanta la Fiera di Milano era piccolissima in confronto a quella odierna, e la maggior parte degli studenti inglesi di design non ne avevano mai sentito parlare. Ero uno dei pochissimi che tutti gli anni affrontava il viaggio a Milano. All’epoca, l’obiettivo di ogni studente, me compreso, era di trovare lavoro in uno studio di design, e l’idea di riuscire a campare con uno studio proprio restava un’ipotesi per sognatori. Perciò, alla fine del mio primo anno al Royal College, frustrato per il programma troppo lento del mio corso, andai a Milano e visitai molti studi di design, compresi quelli di Sottsass e di George Sowden. Non rimprovero a nessuno dei due di non avermi assunto nel loro studio, probabilmente non ero il “materiale” giusto per essere un dipendente: ero in grado di pensare e avevo moltissime idee, ma realizzarle era al di là delle mie capacità. Lavoravo sodo, ma soltanto se i progetti mi entusiasmavano. Andrea Branzi fu l’unico a farmi una proposta: se mi fossi trasferito a vivere a Milano mi avrebbe trovato del lavoro. Un’offerta molto incoraggiante, la sua: sentire che qualcuno del suo livello mi offriva del lavoro mi diede la sicurezza di cui avevo bisogno per aprire uno studio mio. In quel periodo, però, ricevetti una borsa di studio per l’Hochschule der Künste di Berlino e decisi di accettarla. Dopo di che aprii lo studio.

La fiducia che le aziende ti danno risulta evidente dal fatto che ti consentono di sperimentare nuove tecnologie. Per esempio, in che modo la seduta Low Pad per Cappellini e l’Air-Chair per Magis sono state innovative? E come si sono sviluppati i due progetti?

La Low Pad era originariamente molto diversa da come è diventata. Il primo prototipo era un progetto non molto felice, ma il mix casuale della suola di gomma con la forma di un sedile dell’aeroporto, combinati con la tecnologia delle aziende produttrici di sedili per automobili, l’hanno trasformata in qualcosa di più interessante. La Hi-Pad (che secondo me sarà più longeva) è venuta poco dopo, durante un pranzo con Giulio Cappellini. La disegnai su un pacchetto vuoto di crostini e ne realizzammo il prototipo nottetempo, circa una settimana prima dell’apertura del Salone! La Air-Chair era molto diversa. Anche in questo caso, la tecnologia veniva da un’azienda automobilistica (maniglie interne) ed Eugenio Perazza mi spiegò l’idea con l’aiuto di un tubo di plastica che sembrava un osso cavo. Progettai la sedia partendo dalla gamba posta sulla sezione ovale del pezzo di tubo e creando una struttura tubolare continua con schienale e sedile. Ha qualche affinità con la Plywood Chair che Vitra aveva prodotto molto prima.

Progetti oggetti tecnologici per Muji, Samsung, Rowenta, Olivetti, Punkt. Che rapporto hai con la tecnologia?

Mi piace immaginare che il mio studio possa svolgere qualsiasi lavoro di progettazione su qualsiasi scala e in ogni settore della produzione. Il processo di progettazione di una sedia differisce da quello di un telefono, però necessita delle stesse capacità decisionali e di pensiero pratico. Più il prodotto è tecnologico, più è complesso il processo di progettazione. Per il resto, non vi sono grandi differenze. Se progetti una sedia puoi anche progettare il cinturino di un orologio o un paio di scarpe.

Che è esattamente ciò che hai fatto per Camper. Ma ciò che nella sostanza rende la moda quel che è (l’approccio stagionale, per esempio), non si trova agli antipodi del tuo approccio al design?

A me piacciono le aziende come Camper e Muji: producono oggetti abbordabili e nella loro offerta c’è una generosità che nel settore dei beni di lusso non si trova. Perché ho risposto di sì alla proposta di progettare un paio di scarpe? Perché sapevo di poterlo fare e perché apprezzo il marchio che me l’ha proposto, perché ho visto la possibilità di trasformare la scarpa in una specie di classico da rinnovare negli anni. Ovviamente, ho progettato la scarpa Camper con l’intento che durasse anche dal punto di vista estetico, ma potrei sbagliarmi e magari un’ondata della moda la spazzerà via…

Jasper Morrison Camper

Jasper Morrison, The Country Trainer, 2011. Design per Camper.

Qual è a tutt’oggi il progetto che ti ha posto davanti alle sfide maggiori e come le hai affrontate?

La sfida più impegnativa, e forse il mio peggior fallimento, è stata la collaborazione con Samsung. Sebbene alcuni dei progetti siano stati realizzati, la sproporzione fra i risultati e gli sforzi fatti per raggiungerli rimane enorme. Non sono riuscito a entrare in relazione con la piramide del management aziendale. Non ero pronto per una corporation, con i suoi imprevedibili processi decisionali, e inoltre i miei lavori non portavano stampato sopra il simbolo del dollaro… Comunque, ho imparato molto dall’esperienza e lavorare con Punkt. sul telefono, anche se in scala minore, sembra aver portato a risultati migliori, sia in termini di qualità del design sia per quanto concerne le potenzialità future.

A che cosa stai lavorando attualmente e per quali marchi?

Sto progettando parecchie sedie! Una per Maruni (l’azienda giapponese il cui direttore artistico è Naoto Fukasawa) e una per Muji. Per Magis, sto lavorando a una sedia di metallo da giardino che è nata dalla seguente osservazione: i prodotti migliori di questa tipologia sono quasi trasparenti e fatti con sottili strutture metalliche. Per Vitra, proseguo con il programma Hal, che abbiamo parzialmente mostrato a Orgatec. Abbiamo dedicato quasi tre anni allo studio della struttura della sedia, per fornire il livello di comfort e di dinamicità massimi, in modo che risulti comoda nel suo impiego attivo e in quello passivo. Credo inoltre che si tratti della prima struttura completamente riciclabile: i punti di fissaggio all’interno sono di plastica anziché di metallo. Per Alias sto lavorando a un’altra sedia che nasce da un’idea molto semplice, ma trovare la produzione industriale e il sistema di assemblaggio giusti rappresenta una difficoltà che non so se saremo in grado di risolvere in tempo per il prossimo Salone.

Hai lavorato con James Irvine alla collezione Progetto Oggetto di Cappellini. E in numerose occasioni con Naoto Fukasawa. Perché ti piace lavorare con colleghi designer?

Molti dei miei amici più cari sono o sono stati designer. Conosco James dal 1980, quando frequentavamo la stessa scuola d’arte. Naoto e io siamo diventati amici quando abbiamo fatto la mostra Super Normal. Apprezzo il dialogo che nasce dalla collaborazione e dall’incontro con altri designer, mi piace discutere su progetti specifici (mi incontro spesso con Naoto e Konstantin Grcic, per esempio, perché tutti e tre lavoriamo per Muji) o semplicemente cenare con i colleghi. Penso che la professione ci avvicini perché trascorriamo le giornate in modo analogo e probabilmente abbiamo degli obiettivi in comune. Perciò mi piace parlare con altri designer anche quando i nostri lavori sembrano molto distanti. Recentemente ho discusso di alcuni progetti con Martí Guixé e qualche anno fa sono diventato amico di Jaime Hayon dopo un volo in aeroplano: era seduto accanto a me, con un paio di occhiali azzurri e delle scarpe rosse, e ciò nonostante abbiamo fatto amicizia! A volte mi capita di trascorrere giornate intere con i miei assistenti parlando della vita e di come dovrebbero andare le cose, ed è un piacere.

Questo significa che lasci anche spazio alla creatività dei tuoi collaboratori?

Le discussioni che si accendono nello studio sono la parte migliore della routine quotidiana. Costituiscono una parte vitale dello sviluppo di qualsiasi progetto. Attraverso queste discussioni testiamo tutto quello che facciamo e benché in genere sia io a dare inizio a un progetto, il suo sviluppo è indubbiamente il prodotto di uno sforzo collettivo.

Parliamo ora di un paio di argomenti controversi. Nel 2000 hai accettato una commissione da un museo nel villaggio di Vallauris, in Provenza, per produrre ceramiche realizzate da artigiani locali in edizione limitata. A causa dell’aspetto “industriale” del risultato la comunità artigianale d’Europa ha espresso la sua indignazione. “Perché ricorrere alla sapienza antica dei ceramisti di Vallauris”, protestava l’editoriale di una rivista di artigianato, “per ottenere un prodotto che sembra uscito dalla fabbrica?”. Puoi descrivere questo progetto, e spiegare perché hai deciso di realizzarlo e che cosa pensi dei commenti che ha suscitato?

Non vado particolarmente fiero dei risultati di quel progetto e condivido in parte le critiche. Ma se l’obiettivo è un prodotto artigianale, perché non chiedere a un artigiano di realizzarlo? A me piace l’idea che la gente faccia qualcosa a mano, per necessità o perché a macchina non può venire meglio, ma non sono particolarmente entusiasta della lettura che oggi si dà dell’oggetto artigianale. Non capisco perché si debbano fare a mano cose che costano di più e non sono alla portata di tutti. Non sarebbe meglio tentare di produrre industrialmente oggetti che significano qualcosa per noi, invece di fingere che riusciamo a entrare in relazione soltanto con oggetti prodotti artigianalmente?

Sono curiosa, alla luce di quanto hai appena detto, di sapere che cosa pensi di questa mania delle edizioni limitate…

Le edizioni limitate hanno un loro ambito, come ce l’ha l’haute couture.

Un altro tuo controverso progetto è stato The Crate di Established & Sons. Ci puoi raccontare come ci sei arrivato e perché?

È una storia semplicissima. Quando mi sono trasferito nel mio appartamento di Parigi, ho trovato una cassetta di legno che l’operaio aveva usato per tenere le piastrelle. L’ho pulita e utilizzata come comodino. Due anni dopo, mi sono reso conto che si trattava di un oggetto di design, forse addirittura di ottimo design. Così, quando Established & Sons mi ha chiesto di progettare qualcosa gli ho proposto di rifare la cassetta, The Crate, come articolo di arredamento. Fortunatamente hanno creduto nell’idea e l’hanno presentata al Salone di Milano, suscitando un’indignazione che non mi era mai capitato di vedere. The Crate per Established & Sons è quasi identica all’originale, ma il legno è di migliore qualità – abete di Douglas invece di un pino che si scheggia – e gli incastri sono più robusti. L’ho proposta soltanto perché aveva un design pratico ed era molto piacevole accanto al letto. Qualcuno ha capito, altri hanno completamente frainteso.

Jasper Morrison Established

Jasper Morrison, The Crate, 2006. Design per Established & Sons. Photo: Peter Guenzel.

Che cosa pensi del Salone di Milano, della proliferazione del fenomeno delle Settimane del Design nel mondo e della relativa attenzione mediatica? Aiuta veramente il design?

Ho cominciato a chiamare la fiera milanese il Salone del Marketing, e con questo penso d’aver risposto alla tua domanda! Riguardo alle varie Settimane di cui parli, rendono il pubblico più consapevole verso il design. Nel complesso, per quanto concerne la comunicazione, forse è il messaggio a essere in difetto, non il messaggero. E nel caso di alcune riviste di design, comunque, penso che il messaggio sia dettato dal messaggero. Non sono abbonato a nessuna rivista di design, eccetto Apartamento.

Il problema dell’ambiente è urgente e tocca tutti. Non credi che i designer contribuiscano a produrre sempre più cose di cui la gente non ha bisogno?

Credo che designer e produttori debbano fare il possibile per progettare e realizzare articoli che durino, al di là delle mode. Allo stesso tempo, il consumatore si deve impegnare a cercare prodotti durevoli, non usa-e-getta. E i media, dal canto loro, dovrebbero comprendere e promuovere i prodotti di migliore qualità, invece di fotografarne venti tutti assieme solo perché hanno lo stesso colore!

Hai qualche consiglio da dare ai giovani designer di oggi?

Lavorate sodo e tenete gli occhi aperti. Con questo voglio dire che vi sono qualità che nessuna formazione accademica vi può dare. La conoscenza tecnica, per cominciare, ma soprattutto l’abitudine a osservare che ho appreso curiosando fra i libri e vagabondando per le strade. Se mi guardo indietro, mi pare che in questo consista l’educazione che ho ricevuto. Così oggi, quando insegno, cerco di trasmettere che bisogna prima di tutto imparare a usare gli occhi, e poi a giudicare e valutare gli oggetti, le situazioni e i problemi.

Jasper Morrison Punkt DP01-W

Jasper Morrison, DP01 Telephone, 2010. Design per Punkt.

Jasper Morrison Punkt DP01-W

Jasper Morrison, DP01 Telephone, 2010. Design per Punkt.

Jasper Morrison Vitra Plywood Chair

Jasper Morrison, Plywood Chair, 1988. Design per Vitra. Photo: Studio Frei/Vitra.

Jasper Morrison Magis Air Chair

Jasper Morrison, Air-Chair, 1999. Design per Magis.



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