Giulio Iacchetti
Back to the future #15

10 Maggio 2013

A grande richiesta, abbiamo deciso di pubblicare sul sito le lunghe e straordinarie interviste apparse sul magazine cartaceo dal 2009 al 2011. Quaranta trascinanti conversazioni con i protagonisti dell’arte contemporanea, del design e dell’architettura. Una volta alla settimana, un appuntamento da non perdere. Un regalo. Oggi tocca a Giulio Iacchetti.

Klat #03, estate 2010.

In Giulio Iacchetti, pensiero e design sono indissolubili. La sua visione del design esprime dissenso e protesta in chiave poetica. Cerca e trova punti di vista alternativi, inediti, mai pensati. Iacchetti è l’importanza della disobbedienza. Più che un designer, un critico, forse. È sicuramente un sottile osservatore, capace di cogliere il valore profondo del suo mestiere. Che non è fatto di solo stile: è il desiderio di una bella forma che possa durare nel tempo, che possa invecchiare assieme a chi quella forma l’ha scelta. Nel 2009, il Triennale Design Museum di Milano, in collaborazione con Mini, ha inaugurato una serie di appuntamenti dedicati al nuovo design italiano partendo da Giulio Iacchetti, con la mostra Oggetti disobbedienti: una serie di progetti che, secondo l’autore, «mostrano qualche debolezza dal punto di vista oggettuale e funzionale, ma che sono dirompenti dal punto di vista comunicativo, portatori di un messaggio politico, capaci di porre dei dubbi, relativizzare solide certezze, innestare un pensiero, guadagnarsi un sorriso». Nel suo percorso professionale, ha dato il via a un nuovo modo di intendere il progetto: lavorare e cooperare con i potenziali concorrenti. Perché Giulio Iacchetti crede fermamente nel valore del confronto, in una comunità fatta di uomini e donne responsabili. Tra i suoi lavori, anche un libro scritto a più mani per i tipi della Corraini illustrato da Ale+Ale, Italianità, in cui Giulio Iacchetti sceglie oggetti, persone, insegne, immagini e marchi che accompagnano il lettore in un viaggio alla ricerca dell’identità italiana. Lo abbiamo incontrato per Klat, con spirito disobbediente.

Giulio Iacchetti, <em>Odnom</em>, 2009. Design per Palomar.

Giulio Iacchetti, Odnom, 2009. Design per Palomar.

Nei tuoi oggetti esprimi divertimento e una lucida visione di quello che accade nella società. Una forte capacità critica che si trasforma in gioco apparente e in dissenso. Come ti confronti con questa tua caratteristica?

È un caratteristica che è maturata negli anni: ho imparato a dubitare, a relativizzare l’ordine e le parole dopo un lungo percorso, ordinato e disordinato insieme. Non sono nato ribelle e non credo di esserlo ancora, ma c’è stato un lungo tragitto di allontanamento rispetto agli ordini costituiti. Quando sono approdato al dubbio, quello che prima sembrava una condizione di incertezza è diventata per me la dimensione più adatta per la creazione di un progetto. Un progetto nasce sempre in un contesto di grande relatività. Noi indaghiamo il futuro e ci poniamo come tramite fra ciò che è già condiviso e ciò che non esiste. Il designer si pone tra l’esperienza tangibile e il mondo a venire. Mi piace questo spazio indefinito, incerto, da costruire. Penso che gran parte dei problemi del mondo si possano attribuire al bisogno diffuso di certezze assolute, alla rivendicazione delle proprie convinzioni, all’accettazione degli ordini costituiti. La mostra alla Triennale, con l’esposizione degli oggetti disobbedienti, è uno dei momenti più importanti della mia riflessione attorno al dubbio.

Tra gli altri, in quella mostra era esposto anche Odnom, il mappamondo “al contrario”, poi prodotto da Palomar.

Il mappamondo ci impone una presa di coscienza del mondo: riproduce in piccolo una cosa su cui, alla fine dei conti, noi poggiamo i piedi. Il mappamondo riproduce in scala la sfera terrestre, il globo. A partire da questa rappresentazione in scala, volevo indirizzare l’attenzione verso una strana convenzione che si è stabilita nel tempo: quella delle coordinate geografiche, i concetti di Nord e Sud. Nord in alto, Sud in basso. Parametri che si sono rivelati pericolosi indicatori politici e ideologici. Il Nord sta sopra, il Sud sta sotto.

Il Sud è una parte del mondo su cui grava il peso del Nord…

Sì, e questo è un fatto che non può lasciare indifferenti. Il Sud ha pagato e sta pagando per il Nord del mondo. Anche la riproduzione di un oggetto così, tutto sommato innocuo, che esprime una convenzione geografica per certi aspetti innocente, si rivela di fatto tragica. La stessa inclinazione dell’asse concorre a nascondere i Paesi dell’emisfero Sud. Se fosse il contrario, conosceremmo molto meglio la loro geografia.

Giulio Iacchetti, <em>Tropico</em>, 2008. Design per Foscarini.

Giulio Iacchetti, Tropico, 2008. Design per Foscarini.

Cosa hai proposto?

Non ho fatto molto, il mio intervento non doveva essere troppo personale. Mi sono limitato a porre come base di appoggio del mappamondo uno specchio. Funzionalmente è una soluzione perfetta, perché tutto il mappamondo si poggia su un punto e una linea. Grazie allo specchio, e dopo aver scritto i nomi dell’emisfero Sud al contrario, si è ottenuto di poter leggere comodamente quello che di solito resta nascosto. È una intuizione progettuale semplice, ma smuove qualche cosa. Lo specchio non serve solo per generare la riflessione, ma anche per rigirare il mondo, per mettere in discussione le regole consolidate, ovvero che il Nord debba stare in alto e il Sud in basso…

Una scelta precisa e non innocente…

Innocente perché le cose peggiori spesso avvengono nella convinzione di essere nel giusto. Potrei dire che preferisco chi fa del male consapevolmente a chi fa del male pensando di essere nel giusto.

Cosa ti ha fatto iniziare questo mestiere?

Ho sempre amato le forme e gli oggetti, meglio se semplici. Nella mia giovinezza pensavo che avrei fatto lo scultore. Fare oggetti solidi, tridimensionali, mi sembrava un’esperienza portatrice di una capacità autorganizzativa incommensurabile. Avevo un amore straordinario per la scultura. Poi non ho seguito questa passione con la disciplina e la serietà che richiedeva; mi piaceva intagliare il legno, cosa che faccio ancora oggi.

C’è un oggetto in particolare che ti ha affascinato e ti ha spinto a diventare un designer?

Una papera di legno segna un punto di svolta. Ero in campeggio con dei ragazzi più piccoli di me, e in un mercato di privati ho visto delle papere di legno simili a quelle che vengono usate per la caccia. Mi colpì una papera in particolare: azzurra, intagliata in un blocco di legno, colorata con maestria. Aveva una forma liscia e affusolata, come se fosse appena emersa dall’acqua. L’ho comprata con la scusa di regalarla a mia sorella e poi è rimasta a me. Questa papera mi segue sempre, anche quando cambio casa e ufficio: mi ricorda l’amore per le forme.

Che cos’è per te un oggetto?

Cambio spesso definizione. Oggi sono dell’idea che un oggetto abbia un valore di per sé, mentre prima mi sentivo obbligato ad accompagnarlo con alcuni aggettivi: funzionale, emozionale, poetico, etc. Gli oggetti hanno valore in sé, sono belli, perché non hanno bisogno di essere associati ad altro. L’interesse che un oggetto suscita non dipende dalla sua funzionalità, dall’emotività che scatena o dalle sue doti estetiche. Un oggetto può essere svincolato da qualsiasi qualità che gli vogliamo attribuire.

Giulio Iacchetti, <em>Pandora Card</em>, 2004. Design per Pandora Design.

Giulio Iacchetti, Pandora Card, 2004. Design per Pandora Design.

E un oggetto di design?

L’oggetto di design, se riusciamo a progettarlo bene, diventa compagno di vita di tante persone. Dura nel tempo, perché mantiene intatte le sue qualità. E questo vale anche per un singolo prototipo. Abbiamo sempre avuto una sorta di atteggiamento fondamentalista riguardo alla produzione industriale, che doveva essere seriale, concreta, funzionale. Adesso credo che un oggetto, anche se rimane solo un prototipo, non perda nulla in qualità.

Come nasce questa idea?

Forse da uno studio sull’oggetto sacro che sto facendo ora. Mi torna sempre in mente ciò che ci racconta la Genesi. Un fatto interessante: in sette giorni, Dio crea il mondo e poi infonde nell’uomo questa sua capacità creativa. È l’uomo che perpetua questa situazione. L’uomo genera figli e pronipoti, ma soprattutto crea oggetti e strumenti.

Su delega di Dio…

È una sorta di ottavo giorno che si estende all’infinito e arriva fino ai nostri giorni. L’idea che ci sia una specie di sacralità laica nel nostro lavoro mi interessa molto. L’aspetto funzionale ha la sua importanza, anche se io cerco sempre negli oggetti la scintilla dell’utopia.

Progettare una seduta è come progettare qualsiasi altro oggetto?

Direi di sì. L’oggetto è un medium fra noi e una nostra idea, una intuizione, un dubbio. Qualunque oggetto sia.

Spesso, i designer della generazione precedente alla tua parlano di un design pensato con l’intenzione di cambiare e salvare il mondo. Cosa ne pensi?

Io la penso diversamente. Il design può concorrere a dare forma a una delle tre grandi categorie che portano qualità alla vita delle persone: la luce del sole, la religione e la bellezza. È una tesi, questa delle tre grandi categorie, che ho appreso alla radio, ascoltando una professoressa che commentava Alice nel paese delle meraviglie.

Giulio Iacchetti, <em>St.Peter Squeezer</em>, 2007. Design per/for Pandora Design.

Giulio Iacchetti, St.Peter Squeezer, 2007. Design per Pandora Design.

Dove agisce il designer?

Credo che i designer lavorino sul terzo elemento, la bellezza. Un oggetto disegnato bene, capace di creare stupore, di stimolare idee: questo è l’apporto che possiamo dare. Sulla religione faccio fatica a pensarmi come novello guru e per il sole in Italia siamo abbastanza fortunati.

L’oggetto più bello fra i tuoi?

Mi innamoro sempre delle ultime cose fatte o che stanno per essere lanciate, perché hanno tutta l’innocenza di ciò che non è ancora sul mercato, ma che ha finito il tempo della sperimentazione. Ho disegnato un tagliacarte per Alessi che è stato originato da un lungo percorso: richiama la forma di un uccellino ed è fatto in acciaio, mi ha dato molta emozione. Rispetto alle cose più sedimentate, forse il formaghiaccio per F.lli Guzzini: il cubetto di ghiaccio appare come un lingotto, per ricordare che l’acqua è un bene prezioso. Ma sono vicino a troppi progetti e quindi non saprei dire. Mi piacciono quelli che stanno crescendo.

Nel progetto del Lingotto si sente forte l’aspetto critico.

Mi piace esprimere un punto di vista critico tramite un prodotto di design. Con il Lingotto suggerisco una riflessione sul valore dell’acqua, senza voler fare il moralizzatore. Il Lingotto non ti obbliga a usare meno acqua, si limita a produrre dei volumi di ghiaccio a forma di lingotto, al posto dei classici cubetti. Ogni lingotto riporta sulla superficie minore la scritta GOLD. Un cocktail con questo ghiaccio ricorda qualche cosa. A chi vuole pensare. Chi non vuole, si beve il drink.

Un altro progetto che riflette in modo critico sull’elemento acqua è il soffione per doccia Drop, a forma di goccia, prodotto da IB rubinetterie. Come è nato?

Tutto nasce dall’ironia, perché il più grande problema che abbiamo in bagno è il rubinetto che fa la goccia o il soffione doccia che perde acqua. Così nasce l’idea di un soffione a forma di goccia in silicone morbido… La forma a goccia consente una migliore erogazione dell’acqua e il silicone impedisce la formazione del calcare, che solitamente si deposita all’interno del diffusore, ostruendone i fori. Drop con poca acqua assicura un buon getto e, una volta finita la doccia, si può “strizzare” liberandolo da gocce e calcare. Si consuma meno acqua e non si hanno problemi con il calcare.

Tra i numerosi lavori, forse quello che più di altri ha segnato una svolta nella tua carriera è il progetto Eureka per Coop. Ha dato nuovo ossigeno al giovane design italiano.

Questa esperienza è stata la cosa più bella che mi sia capitata dal punto di vista professionale. Sono nate amicizie, idee, stimoli. Ora è scontato vedersi e divertirsi con Paolo Ulian, Gabriele Pezzini e altri. Prima di questa esperienza, invece, ci si conosceva a malapena. Eravamo tutti un po’ diffidenti, non volevamo dare informazioni riguardo al nostro lavoro. Faticavamo ad allargare le amicizie, perché ci vedevamo come concorrenti. C’è sempre stata molta riservatezza riguardo ai propri progetti, che ognuno custodiva, comprensibilmente. Questa riservatezza, però, ha anche disperso molte energie, molte qualità, perché è dal confronto che nascono le cose migliori. I nostri grandi maestri, che erano pochi e si incontravano con i pochi produttori presenti allora, si conoscevano, percorrevano le stesse strade, facevano gli stessi concorsi, avevano occasioni di confronto, di critica e autocritica. Fra di noi, questo non succedeva. All’inizio abbiamo riflettuto sul nostro ruolo, ragionando sull’utopia, sulle possibilità che abbiamo di incidere sulla società. All’esperienza con la Coop, sono seguite autoconvocazioni per lavori di altro tipo, e gli incontri si sono fatti più frequenti. Molto è cambiato. Questa è stata la maggiore ricchezza del progetto. Poi, tutto l’aspetto del design democratico è noto.

Giulio Iacchetti,<em> Drop</em>, 2008. Design per IB rubinetterie.

Giulio Iacchetti, Drop, 2008. Design per IB rubinetterie.

Tra gli oggetti c’erano le tue mollette, uno stendino, uno sturalavandino. Tanti oggetti di uso comune, casalingo. Qual era l’intenzione progettuale?

Creare prodotti per tutte le famiglie del nostro Paese, capaci di assolvere funzioni normali e progettati da una nuova generazione di designer italiani, all’epoca già conosciuti ma non come adesso. Era anche un modo per rendere autorevole la presenza di un gruppo di lavoro, di nomi nuovi, all’interno del mondo del design.

Quale nome hai dato alla tua molletta?

Molletta per Bucato. Nessun oggetto porta un nome. L’idea della molletta sta nella monomateria: normalmente le mollette si realizzano con più materiali e vengono vendute come prodotti finiti già assemblati (i corpi in plastica, le molle metalliche, etc.). Questa invece è realizzata con un solo materiale e in un unico corpo. Dallo stampo escono dodici mollette, disposte “a corolla” intorno a un sottile disco di plastica a perdere. È l’utente finale a staccare le singole mollette dal disco, eliminando un passaggio che dovrebbero fare in fabbrica e abbassando così il costo di produzione. Il disco può essere usato anche come sottobicchiere e, quando finisce il suo ciclo, si può gettare la molletta direttamente nel raccoglitore della plastica.

Quale sviluppo ha avuto Eureka nel mondo della larga distribuzione?

Non ha avuto lo sviluppo sperato. Poteva aprire una grande stagione per la grande distribuzione organizzata, ma questo non è avvenuto, anche a causa della crisi economica che si è fatta sentire pesantemente. Quando la tempesta infuria anche il coraggio viene meno, così come la voglia di sperimentare.

Sei uno tra i designer che non disdegna Ikea. Perché?

Parlar male di Ikea è facile. Ikea si ispira con disinvoltura ai prodotti migliori del design italiano e internazionale. Prende quello che funziona e lo replica a costi ridotti. In verità, ci sono anche prodotti fatti in modo originale. Il lato positivo di Ikea è quello di aver avvicinato il pubblico a una estetica più ricercata, a prodotti meno banali, innalzando il gusto generale delle persone. Ikea è come una scuola primaria: ci si può fermare alle elementari o proseguire, per arrivare a Driade e Zanotta.

Ma una casa interamente Ikea si riconosce…

Non dobbiamo esser troppo severi, perché poi scatta l’atteggiamento aristocratico. Se una cosa è condivisa da pochi ci lamentiamo, quando poi vi accedono in tanti storciamo il naso… Io sarei più accondiscendente.

Giulio Iacchetti, <em>Lingotto</em>, 2006. Design per F.lli Guzzini.

Giulio Iacchetti, Lingotto, 2006. Design per F.lli Guzzini.

Da quello che ho visto, negli anni Sessanta era più facile avvicinarsi a oggetti di design. Nelle case si trovavano spesso oggetti progettati da quelli che oggi sono i maestri.

Non ne sono così convinto. Quello che dici era valido per le aree metropolitane come Milano. Fuori dal contesto milanese, le persone che dovevano scegliere l’arredo di casa avevano problemi ad accedere al design. Per quello che mi ricordo, nel mio paese, a casa mia o di conoscenti, non ho mai visto alcun oggetto che noi consideriamo oggi un classico del design. Qui però ognuno ha il suo piccolo osservatorio e trae le sue conclusioni. Per me il design è sempre stato una bolla milanese.

Nel tuo studio, si vedono molto orologi a cucù.

Ne ho anche disegnato uno che si chiamava Silos. Era un omaggio alle architetture della mia terra di origine, dove si immagazzina il foraggio. C’è una tipologia di silos che si chiama Cremasco, da cui nasce il mio cucù perché ne riprende lo stile architettonico. Mi piace molto e non so bene perché: quando ci si innamora non si conoscono i motivi. È interessante la storia della nascita del cucù, dal punto di vista del disegno industriale e della comunicazione. È stato pensato da un artigiano che doveva promuovere la Foresta Nera e gli orologi che venivano prodotti in quella zona. Ha sposato i due elementi. Foglie, lepri, fagiani e l’uccellino che cantava, le pigne. Un oggetto di marketing. La magia di questo uccellino che esce… è quello che fa tutto.

Qual è il tuo prossimo progetto?

Sto lavorando molto con Ceramica Globo, di cui sono direttore artistico. Ceramica Globo produce sanitari. Lavoro su progetti che esplorano soluzioni funzionali per il bagno. Abbiamo da poco presentato un orinatoio all’interno della collezione di sanitari Olivia. Si tratta di un orinatoio per spazi collettivi, che vuole avere anche una funzione in ambito domestico, risparmiando sull’uso dell’acqua e proponendosi come alternativa al secondo bagno.

Lo scorso aprile si sono visti anche i tuoi dadi Happy Dice per Skitsch: dopo il portavalori della linea TobeUs, un altro gioco?

Pare che si giochi a dadi da tempo immemorabile, addirittura da prima che fosse inventata la scrittura, e pare che tutte le civiltà più antiche, a partire da quella orientale-indiana fino a quella greca e latina, avessero la medesima passione per la sfida e la scommessa. Un’ebbrezza radicata che da secoli fa sentire il Caso prima tra le mani e poi lo fa rotolare sotto gli occhi, determinando la sorte di chi vince e di chi perde. Questi dadi sono perciò la rivisitazione contemporanea di un gioco millenario che, con lieve ironia, si prende beffa della sorte, sorridendole. È anche il gioco di veder crescere, un segno alla volta, la composizione di sei facce, sempre espressive e sempre pronte a sorridere.



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