Napoli Super Modern
LAN

30 Marzo 2021

A pronunciarlo, il titolo di questo libro necessario e raffinato, Napoli Super Modern, suona quasi come un ossimoro, eppure non lo è; lo si capisce quando, pagina dopo pagina, si scoprono le diciotto architetture prese in esame, costruite a Napoli fra il 1930 e il 1960. La periodizzazione è originale rispetto ai canoni storiografici classici, quelli di ante e dopoguerra, di fascismo e repubblica. Il 1945 cade esattamente a metà del trentennio considerato, ma non è questo un libro dove l’architettura viene vista come espressione di regimi politici diversi. Piuttosto, Napoli Super Modern analizza, racconta e contestualizza l’architettura dentro una geomorfologia che, va da sé, è quella della città di Napoli, osservando non solo ciò che sta sopra la linea di terra, ma andando anche sotto, scendendo nelle profondità della massa tufacea su cui e in cui la metropoli è stata edificata – ormai nel corso di millenni – sfidando una “natura matrigna” fatta di terremoti, esalazioni e colate laviche.

Grattacielo della Società Cattolica Assicurazioni, progetto di Stefania Filo Speziale, 1956-1958. Foto: © Cyrille Weiner.

Napoli Super Modern è il frutto del lavoro di un piccolo gruppo di ricercatori diretto da Umberto Napolitano, fondatore e direttore con Benoit Jallon di LAN, studio di progettazione basato a Parigi, dove i due hanno studiato architettura. Per Napolitano, che frequentò i primi due anni di università a Napoli, quest’indagine rappresenta una sorta di Heimkehr, di ritorno a casa – come spiega lui stesso nel testo introduttivo (“Genesi”). Alla ricerca contribuiscono anche Andrea Maglio, con un saggio storico impeccabile; Manuel Orazi, con un approfondimento critico a tutto campo e un breve explicit; Gianluigi Freda, con una sintetica e densa discussione sul rapporto fra Napoli e modernità, e Cyrille Weiner, fotografo già coinvolto nel precedente libro di LAN su una città, la Parigi di Haussmann. E proprio lo studio sulla Parigi di Haussmann vale di fatto come premessa metodologica per i contenuti di Napoli Super Modern, che a sua volta vanta una piena autonomia di analisi, più ampia di quanto si possa presupporre. L’opera è in grado, infatti, di attingere a questioni storiche, di poiesis e di rappresentazione che hanno un interesse esteso e generale, nonostante Napoli rimanga il punto fisso di ogni argomento, oggetto di un’investigazione focalizzata su un numero relativamente limitato di progettisti e casi studio. La copertina azzurra, con la bellissima scritta in oro dallo stile grecizzante, che allude alle origini greche dell’urbanizzazione del Golfo, esprime già la profondità della prospettiva; così come il grande formato e la qualità materiale del volume, pubblicato in italiano dalla maceratese Quodlibet e in inglese dalla svizzera Park Books, rivelano l’ambizione del progetto.

Il libro si divide in due parti: la prima su pagina bianca, riservata ai saggi, e la seconda su pagina grigia, dedicata alle schede dei diciotto edifici analizzati, le cui storie sono indagate e descritte da Andrea Maglio con scrupolo filologico, e rappresentate visivamente da LAN con planimetrie, piante e prospetti, resi appena tridimensionali da leggere ombreggiature. Del resto, non sono edifici con facciate lisce: anzi, sono scavati, presentano sporgenze e rientranze nelle diverse scale, sono pensati proprio per giocare con il sole. E non è il motto di Le Corbusier dell’architettura come sapiente, magnifico e rigoroso gioco delle forme sotto la luce a informare le diciotto architetture presentate, o lo è solo in minima parte. Come rileva Napolitano nel suo saggio sul “fare città”, la straordinaria coerenza del super moderno napoletano va cercata in edifici, anche grandi, che riescono a incunearsi all’interno di un territorio urbano geologicamente accidentato e densamente costruito; una coerenza capace di creare un continuum che pare l’opposto del concetto, forse ormai abusato, di tabula rasa.

Palazzo degli Uffici Finanziari e Avvocatura di Stato, progetto di Marcello Canino, 1935-1937. Foto: © Cyrille Weiner.

Insieme agli edifici, il libro ha il merito di far emergere le figure di progettisti importanti ma poco studiati nel panorama architettonico italiano, nel bene e nel male. Tra questi, Marcello Canino, deus ex machina, anche accademico, della scena architettonica napoletana, autore del palazzo INA in piazza Municipio, un autentico gioco di virtuosismi nel mediare tra le diverse scale dei volumi circostanti, come evidenzia Napolitano. Tra gli altri docenti della facoltà partenopea c’è Luigi Cosenza, autore nell’anteguerra del mercato ittico, quasi un edificio industriale a-tipologico, e fautore nel dopoguerra, con i propri corsi, di una trasposizione razionalistica di tipi ed elementi della tradizione napoletana, come emerge dalla scheda sulle case popolari al rione Cesare Battisti; e Francesco della Sala, che affianca Cosenza in questo lavoro e che torna in Italia nel 1955 dopo un master all’università del Michigan, dove ottiene il titolo di professore associato – primo, probabilmente, tra tutti i cattedratici italiani di composizione architettonica di quel tempo. Anche Carlo Cocchia, pur con una parentesi al Politecnico di Milano negli anni Sessanta, è docente di composizione a Napoli, e ricopre un ruolo importante nella progettazione della Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare; mostra che si rivela a suo modo tragicomica e tardiva, inaugurata nel 1940, ma che fornisce tante occasioni a una generazione di giovani architetti, locali e non solo, di esercitarsi sul tema del padiglione, come quello per l’Albania di Gherardo Bosio che negli stessi anni – gli ultimi di una vita breve – stava letteralmente creando Tirana.

Tra le figure che Napoli Super Modern riscopre e rivaluta, è molto interessante quella di Stefania Filo Speziale, tra le prime donne a laurearsi in architettura in Italia, progettista del grattacielo della Società Cattolica Assicurazioni, oggi un hotel NH, del teatro Metropol e del palazzo Della Morte, degli anni Cinquanta, progettato in sezione sullo sbalzo di oltre sessanta metri tra via Palizzi e corso Vittorio Emanuele, grande prova di abilità tecnica e creatività, sintesi di forme leggere e vegetazione mediterranea che porta Napolitano a parlare di “un’insospettabile aria brasiliana”, probabilmente pensando a Lina Bo Bardi: un’altra architetta italiana, la cui carriera si è svolta perlopiù in Brasile, appunto, che ha avuto però un’attenzione critica molto maggiore. Per questa tipologia di edifici, di cui si vede la copertura dalla strada superiore e la facciata a strapiombo da quella inferiore, Renato De Fusco, grande intellettuale napoletano dell’architettura, ha coniato – nota sempre Napolitano – il termine “Grattaterra”, a sottolinearne la peculiarità. Quanto a Filo Speziale, certo, pesa sulla sua carriera Le mani sulla città, il film del 1963 di Francesco Rosi che denuncia lo sfregio delle città italiane durante il boom economico, ambientato emblematicamente proprio nel suo contestato grattacielo sul lungomare, che nonostante l’afflato pontiano e le proporzioni rigorose è stato tacciato di essere uno scempio edilizio.

Padiglione dell’Albania, progetto di Gherardo Bosio e Pier Niccolò Berardi, 1940. Foto: © Cyrille Weiner.

I diciotto edifici che fanno da caso-studio, dipanando il filo del discorso, sono comunque tutti interessanti, e tutti poco noti. Tra questi, valgano come esempi la bellissima stazione Fuorigrotta della ferrovia Cumana, con la sua copertura ondulata progettata da Frediano Frediani, anche lui colpito, di striscio, dalla damnatio memoriae per aver progettato nel 1945 un mai realizzato grattacielo sul mare. Paradigmatico per raffinatezza, è l’edificio per appartamenti di Amedeo e Lorenzo d’Albora sulla Riviera di Chiaia, che svela nelle sottili solette dei balconi in aggetto la formazione ingegneristica dei due fratelli, i quali rovesciano un luogo forse troppo comune, autoassolutorio per gli architetti: che lo sfregio delle città e dei territori italiani nel dopoguerra sia dovuto a ingegneri e geometri. Senza andare oltre, una menzione speciale va alla Villa Oro, volume incastonato fra strada e scogliera di Luigi Cosenza e Bernard Rudofsky, futuro autore del manifesto dell’architettura come sapere diffuso: Architecture Without Architects, che accompagna l’omonima mostra al MoMA di New York del 1964. E proprio la presenza di Rudofsky a Napoli e dintorni negli anni Trenta ricorda come tanti razionalisti nordici cercassero nell’architettura mediterranea le fonti primigenie della modernità, argomento cavalcato proprio da un napoletano, Edoardo Persico, con una importante mostra del 1936 alla Triennale di Milano (città in cui Persico si trasferì nel 1929). E a proposito di testi, è a Napoli che nel dopoguerra Roberto Pane scrive Città antiche edilizia nuova, un libro che avrebbe potuto cambiare, forse, le sorti della ricostruzione.

Certamente, nelle geografie che la storiografia dell’architettura moderna ha più battuto in Italia, Napoli è una tappa di passaggio, mai un punto di partenza o di arrivo: non perché gli edifici moderni qui siano meno rilevanti che altrove, ma a causa della loro eccentricità, e dunque di una certa difficoltà a leggerli come moderni. Napoli Super Modern supera questa difficoltà, e già questo lo rende uno studio originale, ma è anche il metodo a contare. A questo proposito, è illuminante una notazione di Napolitano: negli stessi anni in cui Le Corbusier predica l’uso dei pilotis per trasformare i piani terreni in spazi aperti, liberati dalle maglie urbane preesistenti, a Napoli – al contrario – gli edifici moderni continuano ad avere i piani terreni chiusi. Il motivo, forse, non è solo geomorfologico, è anche antropologico: a Napoli non c’è necessità di collegare suolo pubblico e suolo privato, perché il modo di abitare le case e di vivere gli spazi li ha già resi un continuum, si direbbe ab origine. Ancora oggi, nei vicoli della città il suolo pubblico è estensione del pavimento degli alloggi ai piani terra, e ogni possibile anfratto viene occupato da attività economiche più o meno informali, come accade ogni giorno sul sagrato del Palazzo delle Poste, uno degli edifici di Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi che costruiscono la poetica di Napoli Super Modern. Come dimostra questa osservazione quasi di cronaca, il libro è troppo pragmatico e al tempo stesso troppo permeato di visione architettonica per poter figurare tra i tanti scritti di theory che hanno preso in prestito mode e frenesie intellettuali da altre discipline, tipicamente la filosofia, per parlare di architettura – come se la disciplina avesse bisogno di essere nobilitata. Al contrario, Napoli Super Modern è un libro di architettura senza filtri.

Stazione Fuorigrotta della Ferrovia Cumana, progetto di Frediano Frediani, 1939-1940. Foto: © Cyrille Weiner.

Stazione Marittima, progetto di Cesare Bazzani, 1933-1936. Foto: © Cyrille Weiner.

Edificio per uffici Suditalia, oggi sede Inps, progetto di Renato Avolio De Martino, 1957-1959. Foto: © Cyrille Weiner.

Cubo d’Oro, Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare, progetto di Mario Zanetti, Luigi Racheli, Paolo Zella Milillo, 1940. Foto: © Cyrille Weiner.

Clinica Mediterranea, progetto di Sirio Giametta, 1940-1952. Foto: © Cyrille Weiner.

Edificio per abitazioni alla Riviera di Chiaia 206, progetto di Amedeo e Lorenzo d’Albora, 1954-1960. Foto: © Cyrille Weiner.

Palazzo delle Poste, progetto di Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi, 1933-1936. Foto: © Cyrille Weiner.

Palazzo Della Morte, progetto di Stefania Filo Speziale, 1954-1960. Foto: © Cyrille Weiner.

Palazzo Della Morte, progetto di Stefania Filo Speziale, 1954-1960. Foto: © Cyrille Weiner.

Palazzo Della Morte, progetto di Stefania Filo Speziale, 1954-1960. Foto: © Cyrille Weiner.


Manfredo di Robilant

Architetto e ricercatore, insegna progettazione architettonica al Politecnico di Torino ed è stato Visiting Scholar al CCA di Montréal. Ha insegnato alla Domus Academy e ha tenuto lezioni alla Washington University di St. Louis, all’Institut für Kunstwissenschaft di Brema, al Politecnico di Milano, allo Strelka Institute di Mosca e alla Harvard Graduate School of Design. È partner dello studio di architettura DAR.


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