19 Settembre 2019
Avvertenza per chi volesse visitare la grande mostra di Luc Tuymans a Palazzo Grassi: munitevi dell’indispensabile guida curata da Marc Donnadieu (la trovate sul sito). Leggetela tutta e bene. Altrimenti correte il rischio di uscire dalla mostra avendo perso i momenti più intensi. Non è opinione di chi scrive, è lo stesso Tuymans a dare questo suggerimento: “Il breve spazio tra la spiegazione di un quadro e il quadro stesso rappresenta l’unica prospettiva possibile in pittura”1. Detto in altre parole: ciò che vedrete rappresentato sulle tele del pittore di Anversa non sarà comprensibile senza che siate a conoscenza delle motivazioni che hanno spinto l’artista a scegliere tale soggetto. Esempio: quando vi troverete davanti al ritratto di un uomo con un cappello coloniale, nulla di ciò che compare sulla tela potrà farvi intuire che si tratta dell’immagine di Issei Sagawa – come del resto recita il titolo. E senza sapere che il soggetto rappresentato è l’uomo giapponese che, nel 1981 a Parigi, ha assassinato e cannibalizzato una compagna di studi alla Sorbona, non potrete in nessun modo intercettare, nella sua eloquente ambiguità, la poesia di quell’immagine. È chiaro che lo stile, le scelte formali, l’innegabile abilità tecnica dell’artista, sono essenziali affinché il gioco funzioni, altrimenti basterebbe leggere le spiegazioni, senza neppure recarsi alla mostra. Dunque: un occhio sui quadri, un occhio sulla guida. Fine dell’avvertenza. In realtà, a pensarci bene, più che un’avvertenza è già la chiave di lettura di una ricerca artistica che alimenta il suo fascino proprio grazie all’aura di mistero della quale si riveste. Un’aura che Caroline Bourgeois, curatrice della mostra, definisce “il suo silenzio”, spiegando che “Tuymans non prende per mano lo spettatore: lo lascia libero di decidere quale sia il vero soggetto del quadro in funzione di quanto viene detto e di quanto viene suggerito fuori campo”2.
Così, visitatori abbandonati a sé stessi, ma muniti di guida formato A5, entriamo con coraggio e curiosità nella luminosa corte interna di Palazzo Grassi. Qui il pittore ha fatto realizzare un grande mosaico in marmo, che occupa tutto il pavimento e riprende il titolo e il motivo di un’opera del 1986: Schwarzheide. L’immagine è quella di una linea di alberi vista dal basso, che si staglia sul cielo bianco. L’opera è sezionata da otto linee verticali che la dividono in nove strisce. Donnadieu spiega che Schwarzheide è il nome di uno dei campi di lavoro (non di sterminio) nella Germania del Terzo Reich. Il soggetto è ripreso da un disegno di uno dei prigionieri, Alfred Kantor, il quale, non volendo che gli venisse confiscato, l’aveva tagliato a strisce. L’opera è calpestabile. Dopo averla attraversata, imbocchiamo la scala d’onore, sulla quale campeggia una piccola opera: Secrets (1990). È il ritratto a occhi chiusi di Albert Speer, architetto capo del Partito nazista e ministro agli Armamenti e alla Produzione bellica del Terzo Reich. L’inquadratura del volto è stretta, in stile fototessera. È rivolto verso Schwarzheide, ma non lo vede. Speer, nei suoi due libri Memorie del Terzo Reich e Diari segreti di Spandau, sostiene di non essere stato a conoscenza della soluzione finale sugli ebrei ordinata da Hitler. È un’ouverture all’altezza della fama di artista impegnato, che frequenta temi densi come l’olocausto, il colonialismo, le ombre della religione o della politica contemporanea. La sua stessa biografia è segnata dalle contraddizioni della storia: la famiglia della madre aveva partecipato alla Resistenza olandese e nascosto rifugiati, mentre due fratelli del padre erano stati membri della Gioventù hitleriana. Uno dei due, tra l’altro, si chiama Luc, come Tuymans.
Nel percorso della mostra, che propone 80 opere realizzate lungo tutto l’arco della carriera, il tema del nazismo torna più volte. In Our New Quarters (1986) l’artista riproduce il modello di una delle cartoline che i detenuti di Theresienstadt, un campo di transito “modello” costruito dai nazisti per ingannare i media stranieri sulla realtà dei campi di sterminio, erano invitati a spedire ai loro cari. Nel trittico Recherches (1989) il pittore usa immagini scattate da lui stesso nei campi di concentramento di Auschwitz e Buchenwald: una lampada della scrivania di un ufficiale nazista, un dente di un prigioniero e la vista dalla finestra di un ufficio. In Toter Gang (Vicolo cieco), del 2018, rappresenta l’immagine della porta in acciaio che dava accesso al complesso del bunker di Hitler a Berchtesgaden. Sono riflessioni sulla propaganda di regime, sulla profanazione dei corpi e sul male assoluto. Sono quasi appunti, dipinti con una fretta calcolata che è la sua cifra stilistica (ogni quadro, di grande o piccole dimensioni, è concluso nell’arco di un’unica giornata). L’orrore non è mai affrontato in modo diretto, l’abisso si nasconde sempre dietro la banalità di oggetti comuni o situazioni quotidiane.
È sorprendente poi anche come Tuymans affronti il tema dell’11 settembre. L’occasione è quella dell’edizione di Documenta 11 a Kassel, nel 2002, dove a pochi mesi dagli attentati di New York ci si aspettava che gli artisti provassero a confrontarsi su quel tema. “Mia moglie ed io eravamo lì. Abbiamo visto gli aerei entrare nei grattacieli dalla nostra stanza d’albergo. In quel momento ho pensato che fosse impossibile fare qualcosa che raffigurasse l’evento. Non è il modo in cui funziona la pittura”, ha spiegato l’artista3. Così sceglie di realizzare Still Life (2002), che con i suoi 3 metri per 5 è probabilmente una delle nature morte più grandi della storia dell’arte. Una delicata composizione di frutta accanto a una caraffa d’acqua fluttua in uno spazio neutro, dove il piano su cui poggiano gli oggetti si può immaginare grazie alla breve ombra che proiettano. Scrive Donnadieu: “Qui non si tratta di mostrare l’esplosione, gli edifici sventrati, i corpi proiettati nello spazio o i cadaveri sepolti tra le macerie, ma ciò che resta dopo la catastrofe, al di là del bene e del male, quando la nuvola di polvere si è depositata: la determinazione naturale, o umana, a continuare malgrado tutto, a riprendere a crescere o a ripensarsi, frutta e acqua, sostanza e colore, la densità della vita che rinasce. La traduzione letterale di Still Life non è forse ‘ancora vita’?”4. A Venezia il grande quadro è esposto accanto alla piccola tela William Robertson (2014), ritratto dello storico e teologo scozzese vissuto nel XVIII secolo, raffigurato con un’inquadratura stretta del volto che ne fa risaltare gli occhi azzurri e intensi. È come se, per guardare Still Life, Tuymans chiedesse in prestito lo sguardo penetrante dell’intellettuale illuminista.
L’approccio obliquo di Tuymans, che sembra provare un certo piacere nel mettere a disagio lo spettatore, è documentato da Murky Water (2015), uno straordinario trittico commissionato dalla città olandese di Ridderkerk, che desiderava un arazzo per il proprio municipio. L’artista sceglie un soggetto che è molto lontano da ciò che un’amministrazione pubblica vorrebbe per celebrare le bellezze della propria città: tre inquadrature, tratte da altrettante polaroid, dei canali di Ridderkerk, le cui acque sono torbide (murky, appunto). Alghe in superficie, cannucce che galleggiano e un’acqua putrida e stagnante. Non è un caso che oggi l’opera non appartenga più al committente, ma alla Collezione Prada. Eppure, le tre tele emanano una sorta di strano splendore, vibrano di una luce tenue e decisa allo stesso tempo. Le acque torbide, immagine della corruzione personale e collettiva, sembrano essere trasfigurate. È la stessa luce di Sundown (2009) o di Instant (2009), ma soprattutto di Candle (2017), dove della candela non rimane che il nome ed è la pittura a farsi tutta luce. Negli ultimi anni Tuymans ha perfezionato la sua tecnica pittorica, rendendola sempre di più una raffinata ricerca sulle potenzialità delle gradazioni di colore. Il pittore, spiega Jarrett Earnest, “costruisce i suoi quadri con dinamiche cromatiche attentamente calibrate: un’ampia gamma di sfumature è presente in ogni quadro, benché mantenuta in una ristretta gamma tonale. Una tavolozza schiarita dal sole di bianchi porcellana, crema e osso riesce, non si sa come, a creare un rosa pallido, un giallo burro e un lavanda cupo”5. È avvicinandosi alle tele che si scorge questo gioco di pennellate liquide e frettolose, che creano – viste da lontano – un’aura luminosa e magica. È un effetto che si ritrova anche nei soggetti non legati direttamente alla luce, penso a Peaches (2012), Cook (2013) a Ballone (2017), e anche al già citato Toter Gang.
Arrivati alla fine della mostra, la ripercorriamo al contrario, un po’ per essere sicuri di non aver perso nulla, un po’ per provare a ripensarla alla luce del titolo, con il quale lo stesso Tuymans ha voluto battezzare l’esposizione veneziana: La Pelle. È una citazione dell’omonimo romanzo di Curzio Malaparte, che racconta della Napoli liberata e, allo stesso tempo, invasa dalle truppe alleate nel 1943, al culmine della Seconda guerra mondiale. A Palazzo Grassi, l’unico riferimento allo scrittore è in realtà una citazione di Le Mépris (Il disprezzo, 1963) di Jean-Luc Godard, film tratto da un romanzo di Moravia, girato a Capri nella splendida Villa Malaparte, dove fu scritto La pelle. Il quadro di Tuymans, non fosse per il soggetto, non attrarrebbe di per sé l’attenzione, ma dice molto del modo di pensare e lavorare dell’artista. Il quadro raffigura il camino della villa, dietro al quale si vede una piccola finestra che, ma questo lo sappiamo noi, si affaccia sul mare di Capri. Il dipinto vive della luce riflessa dei miti a cui fa riferimento: Godard, la Nouvelle Vague, Brigitte Bardot, Michel Piccoli, il fascino della stessa villa. Ma evoca anche la dimensione di un’umanità corrotta dalle vicende della vita, come avviene nel rapporto tra i protagonisti di Le Mépris e nella Napoli sfregiata dalla guerra descritta ne La pelle. Ripensiamo a queste cose camminando a ritroso nelle sale di Palazzo Grassi, domandoci dove, appesa a queste pareti, impressa ad olio su tela, appaia davvero questa corruzione. Appesa è appesa, ma non si vede, prende forma nella nostra testa nel momento in cui scatta la trappola conoscitiva architettata da Tuymans. Quando, cioè, avvertiamo la frattura tra quello che vediamo e quello che sappiamo dell’opera, o meglio, più precisamente: quando ci accorgiamo che ciò che è dipinto non è mai la rappresentazione diretta di qualcosa presente nella realtà, ma la traduzione in pittura di un’immagine di partenza che, per conto suo, aveva già preso le distanze dal mondo, nel modo ambiguo che solo le immagini sanno fare: mostrando solo ciò che vogliono mostrare.
Dice Tuymans: “Sono un artista contemporaneo, e questo significa che lavoro con le immagini. Il che, di per sé, non è straordinario. È straordinaria, però, la scelta che facciamo, perché non è esattamente immediata. Per me è importante stabilire il significato delle cose. Se vedo un’immagine, devo sapere da dove viene, che cosa poteva voler dire. Oppure non la capisco e mi attira proprio per questo”6. Da un’altra parte aggiunge: “Io non credo che tutte le immagini siano veritiere: non mi fido, neppure delle mie. Bisogna diffidare sempre, porsi domande”7. E altrove ancora afferma: “Mi limito a osservare che, dietro la maschera di quella che viene presentata come ‘immagine’, c’è una sostanziale perdita di significato”8. Occorrerebbe capire meglio che cosa intende Tuymans con la parola ‘significato’. Forse qualcosa che va cercato attraverso le immagini e che le immagini contribuiscono a far smarrire. Uscendo da Palazzo Grassi si ha una sensazione di vertigine. Prima di risalire sul vaporetto, emerge in noi una specie di consapevolezza: abbiamo capito di non aver capito. Un sentimento un po’ antico e un po’ socratico. Che, per fortuna, non ci ha tolto il desiderio di tornare a guardare. La pittura e il mondo.
Luc Tuymans. La Pelle
A cura di Caroline Bourgeois e Luc Tuymans
Palazzo Grassi, Venezia
24 marzo 2019 – 6 gennaio 2020
Note
1 Luc Tuymans, Phaidon, Londra, 1996, 2a ed. riv. 2003, p. 112.
2 Caroline Bourgeois, in Luc Tuymans: La Pelle, catalogo della mostra omonima (Palazzo Grassi, Venezia), Marsilio, Venezia, 2019, p. 14.
3 Ben Eastham, “A Necessary Realism: Interview with Luc Tuymans”, in Apollo – The International Art Magazine, ottobre 2014.
4 Marc Donnadieu, in Luc Tuymans: La Pelle, guida della mostra omonima (Palazzo Grassi, Venezia), progetto grafico di Philippe Delforge, Les produits de l’épicerie, Lilla, 2019, p. 18.
5 Jarrett Earnest, in Luc Tuymans: La Pelle, catalogo della mostra omonima, op. cit., p. 26.
6 Septembre Tiberghien, La suspension du regard. Entretien avec Luc Tuymans, in H-art, n. 133, 2014, supplemento francofono, p. 5.
7 Luc Tuymans, testo di presentazione della mostra Luc Tuymans. Suspended – L’œuvre graphique (1989-2015), Centre de la gravure et de l’image imprimée, La Louvière, 2015.
8 Luc Tuymans, “On the Image”, in On & By Luc Tuymans, a cura di Peter Ruyffelaere, Whitechapel Gallery, Londra, e MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2013, p. 50.