29 Giugno 2020
Se Dio è nei dettagli, allora lo spirito di Amare l’architettura, la mostra che il MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo ha dedicato a Gio Ponti, prolungata fino al 27 settembre dopo la chiusura straordinaria legata alla pandemia, può essere colto nelle parole incorniciate al terzo piano del museo romano firmato da Zaha Hadid. Dentro a un piccolo rettangolo, quasi rischia di sfuggire all’occhio la lettera preziosa che un altro maestro, Adalberto Libera, scrive a Ponti a proposito del disegno che il collega e direttore gli aveva commissionato per la copertina della rivista Verso la casa esatta. Una lettera che contiene un mondo: “Perché tu ti prenda l’amichevole briga di dirmi in due lettere che la copertina non va, bisogna proprio che fosse molto brutta […] Ma tu sei miglior giudice di me, io non ho nessuna pratica editoriale. Fai tu e sarò certo soddisfattissimo”. L’architetto e l’editore, il designer e il direttore, il poeta e il critico. Il particolare e l’universale. Quando, fra tantissimi anni, avremo fatto pace con le parole, scopriremo forse quello che avremmo dovuto sapere da sempre, e cioè che Gio Ponti è stato il primo, il più grande e molto probabilmente l’unico vero influencer che l’architettura italiana abbia mai avuto. E non tanto per il genio progettuale, quanto per l’attitudine a sfaccettarlo (come il cristallo, che non a caso per Ponti era la metafora perfetta dell’architettura) in una pluralità di momenti e aspetti che dal progetto stesso arrivavano fino alla sua comunicazione, in un unico feed di bellezza.
Un anno dopo Tutto Ponti al Musée des Arts décoratifs di Parigi, la mostra al MAXXI curata da Maristella Casciato e Fulvio Irace fa il punto sulla figura più poliedrica e affascinante della nostra architettura, del nostro design e forse del Made in Italy tutto, al punto che appare riduttivo lo stesso titolo Amare l’architettura, mutuato dal libro-manifesto di Ponti pubblicato nel 1957 e diventato di culto prima di uscire dalla circolazione e tornare sugli scaffali nel 2008 in un’edizione Rizzoli. Perché, come emerge proprio dall’allestimento, la lezione di Ponti è che tutto è progetto, e quindi non soltanto l’architettura dovremmo amare, ma anche il design, la sua fotografia, i suoi libri e le sue riviste. Oggi diremmo che dovremmo amarne la comunicazione.
Amare l’architettura, dunque, ma anche questo allestimento fatto di materiali d’archivio, modelli, scatti fotografici, pubblicazioni, classici del design come la sedia Superleggera per Cassina o i lavabi per Ideal Standard, strettamente collegati ai progetti architettonici di Ponti e organizzati in otto sezioni che evocano concetti-chiave dell’architetto. L’allestimento rende omaggio a Ponti e prova a sua volta a essere pontiano, ovvero immersivo, fluido, colorato, accogliendo il visitatore nella lobby del MAXXI con un’installazione di stendardi in Alcantara, sospesi negli spazi a tutta altezza di Zaha Hadid, che riproducono facciate stilizzate di grattacieli e richiamano lo skyline di una città pontiana mai vista. Uscendo dagli ascensori che conducono alle sale espositive, ecco il giallo fantastico usato per la pavimentazione della rampa, che trasporta subito il visitatore all’interno del Pirellone; e ancora prima dell’ingresso in galleria, il progetto fotografico di Thomas Demand racconta i modelli degli edifici verticali conservati al Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma, presenti in mostra. Una volta in galleria, ecco spalancata la vertigine di plastici, riproduzioni e immagini che, da Villa Planchart a Caracas al grattacielo Pirelli, passando per la Concattedrale di Taranto, portano fino all’angolo fatalmente instagrammabile dell’allestimento: un salotto alla Ponti, con le poltrone, il tavolino, le luci e le pareti mobili del maestro che guardano la sagoma del Pirellone e spingono lo sguardo fuori, verso la vetrata del museo protesa su Roma.
Una mostra che è una sfida continua, e che, proprio come Amate l’architettura di Ponti non era “un libro sull’architettura ma per l’architettura”, vuole essere una mostra non sull’architettura ma per l’architettura, come non lo è sul design ma per il design. Un’esposizione che diventa la raffigurazione plastica di un riscatto e che, per dirla con le parole di Salvatore Licitra, nipote di Ponti e curatore della mostra parigina dell’anno scorso, fa giustizia delle analisi che in passato hanno presentato Ponti come “un eclettico opportunista privo di unità culturale”1, ripulendo il campo dalle disamine che, “a seconda dei gusti o delle convenienze degli studiosi, ritengono ‘egemone e significativo’ un ‘genere’ a scapito dell’altro”. Ci volevano i tempi dell’interdisciplinarietà, della fluidità culturale – Licitra parla addirittura dei cambiamenti culturali innescati dallo sviluppo delle tecnologie digitali – per rendere “naturale e comprensibile un’analisi unitaria dell’opera di Ponti focalizzata sulla percezione”2.
Qui le posate per Christofle, le ceramiche per Marazzi, le maniglie per Olivari, i lavabi per Ideal Standard, la sedia Superleggera di Cassina, il modello della carrozzeria per l’automobile Diamante, raccontano insieme alle grandi architetture una storia unica, quella di un uomo che per ragione e istinto volle farsi ambasciatore di una cultura dove architettura, arte e design diventassero una cosa sola. Ci sono anche le immagini degli arredi per le prime classi del Conte Grande e dell’Andrea Doria (1950-1952) e gli ambienti prestigiosi del Conte Biancamano (1950), arricchiti dalla ceramica d’autore di Melotti, Fontana, Melandri, Leoncillo: “Negli anni Cinquanta, con la rinascita e la ricostruzione, la collaborazione con gli artisti diviene l’utopia della sintesi delle arti, che ha tangibile esemplificazione tangibile negli arredi navali”3, dove Ponti segue, come spiega Paolo Campiglio, il principio per cui “gli interni di una nave costituiscono una sorta di museo viaggiante, emblema della creatività italiana nel mondo, con l’immancabile ricorso alle tradizioni”, da cui l’abbondanza “di temi mitologici, folcloristici e popolari, come le carte da gioco e le maschere”4. E poi gli appartamenti milanesi, disegnati per sé o per le figlie, concepiti come palcoscenico per gli arredi dello stesso Ponti e di Mollino, le decorazioni di Fornasetti, le ceramiche di Melotti, i quadri di De Pisis e Funi, e poi Albers, i vetri di Wirkkala, le grandi lampade sferiche di Noguchi, e infine, nella stagione della passione per l’arte contemporanea, Gilardi, Merz, Paladino, Luciano Fabro, Prini e altri ancora.
Ma, di nuovo, non si capirebbe appieno Ponti se non si andasse oltre la vicenda squisitamente progettuale. “Ponti sa che – come stanno facendo sia all’Olivetti in Italia sia i suoi colleghi d’oltreoceano (gli Eames in primis) – un piano di comunicazione è un potente riverbero dell’idea insita nel prodotto stesso”5, scrive Domitilla Dardi in un testo del catalogo della mostra che è forse la miglior sintesi della figura pontiana, Una regia per il design italiano. “La sua esperienza di direttore di importanti riviste viene messa al servizio dell’azienda. Ma non per pubblicare qualche pubblicità patinata, bensì per un vero prodotto editoriale, una pubblicazione corporate che ha come titolo quello dell’azienda e come sottotitolo: Rassegna dei problemi del benessere. E qui è il colpo di genio: non si parla solo di prodotti – anzi, molto poco – ma del diritto a un benessere che sia anche mentale, intellettuale, estetico, oltre che fisico”6.
La stessa consapevolezza Ponti l’ha del ruolo della fotografia, al punto da scrivere su Domus già nel 1932, come ricorda Roberto Dulio in un altro testo del catalogo, che “della fotografia occorre servirsi con arte; quest’arte è già il saper ‘raggiungere’ con essa ciò che noi già vediamo e intendiamo nelle cose: ma non è qui tutto, la indipendenza stessa della vista fotografica ci ha ancora rivelato a sua volta un inedito aspetto delle cose, ci ha portato una tutta nuova comprensione, un tutto nuovo senso di esse e dell’interpretarne le immagini”7. Spiega Dulio che una così acuta consapevolezza dell’uso della fotografia e delle sue implicazioni, insieme agli interessi che Ponti ha sempre alimentato per l’arte, l’editoria, la moda, la réclame, non potevano che determinare la messa a punto di una sofisticata strategia di comunicazione visiva: “Prima ancora dell’uso della fotografia, sono le immagini (…) a impaginare le suggestioni della tradizione con un gusto – anzi: uno stile, come avrebbe detto lo stesso Ponti – assolutamente moderno”8. E infatti il successo di Domus, nel dopoguerra, è dovuto al fatto che era una rivista in cui la fotografia contava prima del testo. “Grandi immagini e testi corti, ed è piaciuta in tutto il mondo per questo”9, diceva Lisa Ponti. Forse però il vero miracolo pontiano è che a questa consapevolezza l’architetto milanese non arriva attraverso la teoria, come nota il curatore Fulvio Irace10. Era lo stesso Ponti a dire che “la mia mente non ha predisposizione naturale per impostazione di principi, per architettare teorie”11, ma per l’azione individuale. Quella che, ancora adesso, più di molte altre cose ci manca.
Gio Ponti. Amare l’architettura
A cura di Maristella Casciato e Fulvio Irace, con Margherita Guccione, Salvatore Licitra, Francesca Zanella.
MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma
27 novembre 2019 – 27 settembre 2020
Note
1 Salvatore Licitra, “Gio Ponti: case come me”, in Gio Ponti. Amare l’architettura, a cura di Maristella Casciato e Fulvio Irace, catalogo della mostra omonima al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, Forma Edizioni, Firenze, 2019, p. 50.
2 Ibidem.
3 Paolo Campiglio, “Ponti, artista tra gli artisti”, in Gio Ponti. Amare l’architettura, op. cit., p. 99.
4 Ibidem.
5 Domitilla Dardi, “Una regia per il design italiano”, in Gio Ponti. Amare l’architettura, op. cit., p. 222.
6 Ibidem.
7 Gio Ponti, “Discorso sull’arte fotografica”, in Domus, n. 53, maggio 1932, pp. 285-288, citato da Roberto Dulio in “‘Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu’: la fotografia tra arte e comunicazione”, in Gio Ponti. Amare l’architettura, op. cit., p. 286.
8 Roberto Duilio, op. cit., p. 286.
9 Le parole di Lisa Ponti sono riportate in A. Maggi, “Il sogno italiano: Giorgio Casali, Domus e la fotografia di design”, in A. Maggi, I. Zannier (a cura di), Giorgio Casali Photographer. Domus 1951-1983. Architecture, Design and Art in Italy, catalogo della mostra omonima (Verona, Centro Internazionale Scavi Scaligeri, 16 febbraio-15 maggio 2013; Londra, Estorick Collection of Modern Art, 26 giugno-8 settembre 2013), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2013, pp. 49-61, la citazione è a p. 51, ed è ripresa da Roberto Dulio, op. cit., p. 287.
10 Fulvio Irace, “Architettura come cristallo. Dalla forma chiusa alla pianta articolata”, in Gio Ponti. Amare l’architettura, op. cit., p. 165.
11 Gio Ponti, “Invenzione di un’architettura composta. Dai ‘cuboni’ alla composizione di un’architettura”, in Stile, n. 39, 1944, citato da Fulvio Irace, op. cit., p. 165.