Florian Idenburg
Back to the future #23

5 Luglio 2013

A grande richiesta, abbiamo deciso di pubblicare sul sito le lunghe e straordinarie interviste apparse sul magazine cartaceo dal 2009 al 2011. Quaranta trascinanti conversazioni con i protagonisti dell’arte contemporanea, del design e dell’architettura. Una volta alla settimana, un appuntamento da non perdere. Un regalo. Oggi tocca a Florian Idenburg.

Klat #03, estate 2010.

Florian Idenburg ha lavorato per otto anni con Kazuyo Sejima / SANAA. Dopo uno stage per City of Girls (l’allestimento del padiglione giapponese alla Biennale di Architettura del 2000), è diventato capo progetto del New Museum, New York. Durante la sua festa di addio, Sejima l’ha pubblicamente ringraziato per aver reso SANAA internazionale. Nel 2008, Florian e Jing Liu fondano lo studio SO-IL: Solid Objectives – Idenburg Liu. La sede è al 68 di Jay Street, Dumbo, Brooklyn, nello stesso isolato di Stan Allen, Hillman Curtis, Fanghor e di almeno altre venti suite creative. Uno dei centri della creatività mondiale. Fin dagli inizi, lo studio partecipa a concorsi internazionali, aggiudicandosi progetti importanti. Forse l’unico progetto poco chiaro è quello presentato per un concorso in Italia. In pochi mesi completano il quartier generale del fashion designer Derek Lam, a quattro isolati dal New Museum, in collaborazione con SANAA (che ne firma la boutique al piano terra). Nelle prime settimane del 2010 si aggiudicano il MoMA’s Young Architects Program per la sistemazione degli spazi esterni del MoMA PS1. Tra i candidati c’era anche BIG, Bjarke Ingels Group. Per i primi mesi del 2011 è previsto il completamento del nuovo edificio della Kukje Gallery, a Seoul.

Florian, inizierei da una tua descrizione dei primi giorni a Tokyo, dai sintomi di una “sindrome da prossimità a Sejima”: «Al mio arrivo in Giappone, mi immersi in uno stile di vita monacale che rifuggiva la luce del sole. Rintanati in un vecchio magazzino di Higashi-Shinagawa, un desolato quartiere nei pressi della Baia di Tokyo, lavoravamo senza sosta. Sedici ore di lavoro al giorno non erano un’eccezione. Le domande si moltiplicavano e la mente vacillava. Storditi dalla mancanza di sonno, capire diventava un dettaglio insignificante. L’architettura era diventata una fede».

Sono cresciuto nell’Olanda calvinista e credo che sia nostro dovere lasciare il mondo in condizioni migliori di quelle in cui lo abbiamo trovato. In questo senso, sono sostenitore di una certa moralità che riscontro anche nel lavoro di SANAA. Forse è questo che inconsciamente mi lega a loro. Quello che mi interessava del loro modo di lavorare era l’incredibile senso di positività. Per me fu una boccata di aria fresca, dopo un’era di cinismo e relativismo koolhaasiani. Sono affascinato dalla ricercata purezza di SANAA. Ma io sono un uomo olandese e non una donna giapponese, quindi escludo che potremo continuare a lavorare secondo le stesse modalità. Sono anche lontano dal machismo neo-koolhaasiano della nostra generazione, dedita ad architetture-diagramma quasi del tutto prive di un’agenda sociale. Personalmente, credo in una società aperta e penso che, come architetti, sia nostro dovere creare opere aperte.

Solid Objectives - Idenburg Liu, Derek Lam Atelier, 2008. Photo: Dean Kaufman

Solid Objectives – Idenburg Liu, Derek Lam Atelier, 2008. Photo: Dean Kaufman. Courtesy: SO-IL.

Nel dilagante machismo architettonico, direi che l’agenda sociale è inesistente. Le tue parole mi hanno ricordato una delle prime definizioni che ho sentito dare del lavoro di SANAA: «Un’isola di chiarezza e leggerezza in un oceano di testosterone e di esuberanza visuale di seconda mano», un’affermazione di Cristina Díaz Moreno ed Efrén García Grinda.

Hai visto la nostra installazione per il MoMA PS1? Credo sia la migliore spiegazione del nostro modo di intendere il lavoro. Noi riteniamo di dover arricchire la sensibilità delle persone avvicinandole concretamente ai luoghi, agli spazi, mediante la creazione di un contesto fisico che sia ricco, divertente e relazionale quanto quello virtuale. L’architetto può diventare una sottile interfaccia tra idee, persone e luoghi, riallineando la dimensione fisica e quella virtuale. Siamo chiamati a occuparci delle connessioni leggere, delle forze transitorie e della leggerezza dei nostri passi… La domanda che dobbiamo porci è la seguente: è possibile individuare un nuovo tipo di bellezza all’interno di questi elementi?

Questo tuo approccio mi convince molto e vorrei che arrivasse a chi legge la nostra intervista. Torniamo al progetto per PS1. Visivamente e concettualmente è chiaro, ma come funziona l’installazione?

L’installazione consiste in pali di fibra di vetro alti dieci metri, uniti tra loro da corde di sicurezza. La superficie tracciata da queste corde, a 5 metri d’altezza, è formata da una rete che sostiene delle palle da fitness colorate. La struttura è instabile, flessibile, elastica. Animata dall’intervento umano e da fattori ambientali, l’installazione è costantemente alla ricerca di un equilibrio. Il movimento in un punto si propaga attraverso l’intera installazione.

Ritornano i concetti di instabilità e variabilità di natura quasi atmosferica…

Ad azionare il movimento dei pali c’è una coreografia di danza contemporanea. La rilevazione digitale del movimento dei pali produce un intervento sonoro di cui le persone possono controllare la tipologia e la direzione. Le persone possono, per così dire, immettere il suono nel sistema. Questi contenuti vengono poi messi in rete, dove altre persone creano i loro suoni e i loro disegni. C’è anche una piattaforma dove condividere queste creazioni. Credo che questa sia la prima opera su scala architettonica in cui gruppi di persone producono collettivamente dei contenuti, che poi vengono resi disponibili su scala globale.

In SANAA l’interattività è tutta reale, senza tecnologia: è affidata ai comportamenti delle persone nello spazio.

Ci auguriamo di andare oltre le affascinanti declinazioni del ruolo dell’architetto nel mondo virtualizzato, date da SANAA e da Toyo Ito… Ciò che ci distingue maggiormente da loro, è una più marcata fede nella massa e nella forma, in una prospettiva corporea ed emotiva.

Questa è sempre stata una delle mie delusioni nei confronti di SANAA. Ancora aspetto un’emozione formale che non sia limitata alla forma esterna dell’edificio. Ma a dire il vero non ho ancora visto l’Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL).

Noi siamo per la solidità, piuttosto che per la leggerezza, una delle parole chiave di SANAA. Crediamo sia utile avere una base solida, la terra sotto i piedi. Ci servono radici, un senso di appartenenza a un luogo. Non so se questo dipenda dalle mie origini germaniche o dai quattromila anni di storia cinese alle spalle di Jing, ma, comunque sia, se vedi i nostri progetti a Prato, la Wedding Chapel di Nanjing o il Sunnyside a New York, per fare alcuni esempi, hanno tutti un senso di fisicità, di solidità. Non si tratta di creare delle chiusure, ma di fornire un pur lieve ancoraggio alla realtà.

Un progetto importante in questo senso potrebbe essere quello per la Kukje Gallery a Seoul. Lo dico questo per almeno due motivi: per la ricerca formale all’esterno della galleria e per l’uso della parola minimal – altro aggettivo lontano dalla ricerca di SANAA, che è appunto non minimalista ma semplice – per descrivere la sala espositiva. Come sta andando questo progetto? Che tipo di architettura intendi realizzare?

La Kukje Gallery ci ha ingaggiato per ridefinire la sua presenza all’interno del tessuto urbano di Sogyeok-dong, una zona di edifici a uno o due piani nella parte nord di Seoul. Stretti vicoli e cortili sul retro delle case caratterizzano questo quartiere che si sta riempiendo di nuove gallerie, boutique e caffè. Nei week-end, la sottile trama urbana della zona è invasa da orde di adolescenti artistoidi che si fanno un giro e sono alla ricerca di sfiziosità da mangiare. Il programma è semplice: si tratta di una galleria white cube grande quanto lo consente la zoning envelope. L’aspetto esterno è invece più complesso. La semplice geometria del white cube sarebbe troppo rigida in questo storico tessuto urbano. La nostra idea è di creare un leggero velo attorno alla struttura “cubica”, in modo da avvolgerla in una sorta di nebulosa permanente. Prendendo spunto dalla tradizione pittorica coreana, abbiamo sperimentato delle tecniche per creare un “effetto foschia”.

Solid Objectives - Idenburg Liu, Pole Dance, 2010. MoMA PS1, New York. Moke-up. Courtesy: SO-IL

Solid Objectives – Idenburg Liu, Pole Dance, 2010. MoMA PS1, New York. Moke-up. Courtesy: SO-IL.

Mi hai ricordato di una sera quando, dopo aver tirato tardi con un amico bevendo qualcosa vicino al Prada store, stavo tornando in bici fino a Bushwick. Imbocco Prince Street per avvicinarmi al ponte ed eccomi davanti il New Museum. Triplo offuscamento: quello della lamiera stirata sugli spigoli, quello della nebbia e il mio offuscamento personale, indotto dalla percentuale alcolica. Bellissimo. Complimenti.

Negli ultimi anni si sono fatti vari esperimenti con apparecchi produci-foschia e produci-nebbia. Noi puntiamo a un effetto meno letterale, meno atmosferico. Abbiamo cercato un modo per ottenere una sensazione di foschia permanente. SANAA, per esempio, sfuma gli spigoli dei suoi edifici con le trasparenze del vetro, con i suoi riflessi ma, visto che i muri di una galleria devono supportare le opere, il vetro non era una soluzione percorribile. La maglia di ferro, mediante una combinazione di rifrazioni e trasparenze, grazie a un gioco di ombre creato dal motivo moiré, è in grado di produrre un effetto sfocato sulla superficie della struttura. Inoltre, la maglia non fa pieghe, è forte e allo stesso tempo flessibile, si può facilmente avvolgere attorno a strutture dalle geometrie squadrate. Questo materiale è perfetto per creare un effetto sfocato attorno a una struttura architettonica dalle forme severe.

L’architettura degli spazi espositivi mi crea qualche difficoltà, in fondo è un’esperienza così particolare e così poco quotidiana… In questo periodo penso a qualcosa di abbastanza vicino a quello cui a volte accenna Hans Ulrich Obrist a proposito di tematiche Merzbau, sulla possibilità di mantenere anche all’interno di spazi immensi la nozione di “piccolezza” o di “casa museo”. Lo spazio espositivo può diventare uno di quei luoghi privilegiati in cui realizzare quel processo per cui il «contesto fisico sia ricco, divertente e relazionale quanto quello virtuale». A pensarci bene, la principale funzionalità del web è quella dello scrolling visivo, della consultazione, molto simile a quella cui siamo abituati in una galleria. E poi alcuni segni di scetticismo emergente verso il lavoro di SANAA arrivano proprio da valutazioni negative degli spazi espositivi (Sarah Williams Goldhagen, The New Republic). Cosa pensi di questo tema progettuale?

Certo, si può dire che un white cube è solo un white cube, una scatola bianca. Tuttavia, lavorando sugli spazi espositivi abbiamo imparato che questa dimensione è perfetta per studiare proporzioni, luce, disposizione e successione degli spazi, velocità e lentezza dei flussi all’interno di un edificio. Non credo che uno spazio possa fungere da produttore di contenuti o che possa promuovere cultura in quanto spazio. Credo, invece, che si possano realizzare luoghi capaci di innalzare il livello di consapevolezza rispetto a ciò che ci circonda. Quando disegniamo uno spazio espositivo, non siamo tenuti a incorporare un elemento di criticità. Penso che alla fine sia meglio tenersene fuori.

Parliamo del New Museum, un edificio incredibilmente ottimista (“hell, yes!”), che trasmette grande positività: penso alle dinamiche innescate dal ground floor, alla scala tra il secondo e il terzo piano, alla sky room. Mi fa sorridere pensare che, per tanti mesi, il lavoro di SANAA a New York è stato portato avanti da un capo progetto in preda all’insonnia…

L’insonnia è stata una costante per tutto il tempo che ho lavorato con SANAA. Il processo di realizzazione del New Museum è stato particolarmente intenso, dato che era la nostra prima esperienza in un mercato molto difficile e che un fuso orario di dodici ore esatte mi divideva dal Giappone. Quindi, durante il giorno portavo avanti la mia battaglia in cantiere e di notte sviluppavo nuove strategie con i miei colleghi di Tokyo.

Esistono aziende che aprono uffici a Tokyo, Londra e Seattle per poter lavorare ventiquattro ore su ventiquattro, ma in questo caso il “dipendente” eri solo tu. A livello operativo come sono andate le cose?

È stata un’esperienza molto educativa. Il problema è che a New York ci sono troppe persone che gravitano attorno a un cantiere. Questo significa che buona parte del budget viene spesa per cose non strettamente legate alla costruzione dell’edificio. La politica non è certo d’aiuto nella realizzazione di un progetto curato e complesso come quello del New Museum.

Dovresti provare a lavorare in Italia… Hai conosciuto bene New York durante il cantiere sulla Bowery?

Vivevo già a New York, dato che all’epoca mi stavo occupando anche del Padiglione del Vetro del Museo d’Arte di Toledo.

Solid Objectives - Idenburg Liu, Kukje Gallery, 2009/2011. Vista assonometrica/axonometric view. Courtesy: SO-IL

Solid Objectives – Idenburg Liu, Kukje Gallery, 2009/2011. Vista assonometrica. Courtesy: SO-IL.

Tu e Jing vi siete conosciuti in quel periodo?

L’ho conosciuta mentre facevo lo stage da SANAA. Due anni e mezzo dopo ci siamo incontrati in un ristorante a Soho, dove stavo pranzando con Sejima. Eravamo a New York per vedere il sito del New Museum per la prima volta. Jing si unì a noi e da allora stiamo insieme.

Ho sempre pensato che Sejima potesse funzionare da catalizzatore sentimentale… Il vostro studio è sempre al 68 di Jay Street? E la squadra di lavoro è quella di sempre?

Sì, nel nostro staff abbiamo due greci e un coreano. Niente americani. Scherzando, diciamo che SO-IL è la sigla di SO ILlegal… Sono bravi e motivati. Siamo una famiglia, pranziamo e discutiamo assieme, è una situazione carica di emotività. Dumbo ci piace molto, ma ci sistemeremo in uno spazio più grande e più spartano, al piano terra e con un ingresso indipendente. Abbiamo bisogno di più spazio per fare le nostre prove e per realizzare grandi modellini. Ci sposteremo di una strada più a nord, vicino alla centrale elettrica.

Dove vivete tu e Jing a New York?

Abbiamo un appartamento a Boerum Hill, Brooklyn. È un quartiere molto poco americano, molto internazionale, sociale, misto. Da un lato del nostro isolato ci sono le case popolari, dove ogni tanto la gente si spara. Dall’altro, c’è uno Starbucks. È una zona varia e giovane.

Boerum Hill è il quartiere più bello di Brooklyn e di tutta New York. Io l’ho conosciuto attraverso La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem. Ragazzini, fumetti e giochi da marciapiede.

Giriamo in bicicletta, ci godiamo questi anni, anche se vorremmo vivere di più la nostra casa. Il nostro appartamento non è grande, le nostre figlie condividono la stessa cameretta e noi abbiamo una stanza da letto aperta sul living/sala da pranzo e la cucina. L’intera casa è invasa dai giocattoli. Non abbiamo la tv, qualche volta guardiamo film scaricati da internet. Il terrazzo sul tetto è in condivisione con gli altri condomini, e da lì si gode una vista su Manhattan e la Statua della Libertà. Con alcuni amici stiamo pensando di costruire un nuovo tipo di “comune”. Una soluzione ispirata al modello di casa Moriyama, in cui ci sia più spazio all’aperto che al chiuso, dove condividere alcune aree come mini spazi espositivi, per eventi, per cucinare…

Le bambine, i due greci e il coreano: direi che la comune è già in costruzione. Se contiamo anche gli studenti dei tuoi corsi…

Quest’anno ho un programma veramente estremo: insegno ad Harvard nel primo e nel secondo semestre, sarò con Jing alla Columbia per il semestre estivo, e il prossimo autunno sarò Visiting Professor di Urban Design all’università del Kentucky, dove Michael Speaks è preside.

Ci hai raccontato quale sensazione ti ha avvicinato a SANAA, ma come hai deciso invece di staccartene?

Dopo otto anni era giunto il momento di passare ad altro. Volevo imparare a costruire e volevo portare a termine un progetto. Ne ho realizzati due e mi ritengo fortunato.

Come ti vedi e come vedi SO-IL tra qualche anno?

Mi auguro ci saremo ingranditi, ma spero soprattutto che avremo fatto grandi progressi nel generare idee forti e interessanti. Idee con le quali un giorno, magari, riusciremo a mantenere le nostre due bambine.

After Nature, 2008. New Museum, New York. Photo: Benoit Pailley

After Nature, 2008. New Museum, New York. Photo: Benoit Pailley.

Solid Objectives - Idenburg Liu, Kukje Gallery, 2009/2011. Vista dall’alto/top view. Courtesy: SO-IL

Solid Objectives – Idenburg Liu, Kukje Gallery, 2009/2011. Vista dall’alto. Courtesy: SO-IL.

Solid Objectives - Idenburg Liu, Pole Dance, 2010. MoMA PS1, New York. Diagramma assonometrico/axonometric diagram. Courtesy: SO-IL

Solid Objectives – Idenburg Liu, Pole Dance, 2010. MoMA PS1, New York. Diagramma assonometrico. Courtesy: SO-IL.

Jing Liu e/and Florian Idenburg, 2009. Photo: Iwan Baan

Jing Liu e Florian Idenburg, 2009. Photo: Iwan Baan.



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