Fabio Novembre
Back to the future #03

7 Febbraio 2013

A grande richiesta, abbiamo deciso di pubblicare sul sito le lunghe e straordinarie interviste apparse sul magazine cartaceo dal 2009 al 2011. Quaranta trascinanti conversazioni con i protagonisti dell’arte contemporanea, del design e dell’architettura. Una volta alla settimana, un appuntamento da non perdere. Un regalo. Oggi tocca a Fabio Novembre.

Klat #04, autunno 2010.

«Sarebbe bello fare un’intervista su cose mai dette: su Internet si trova quasi tutto, e con tutto quello che c’è si potrebbe ricomporre qualsiasi tipo di intervista…». Incontro Fabio Novembre in un tardo pomeriggio di luglio. L’appuntamento è nel suo studio di Milano. Ci sono i suoi collaboratori, i suoi progetti, un biliardino, un grande Compasso di latta con il profilo di Pinocchio disegnato da Riccardo Dalisi. E c’è Verde, 5 anni, la prima delle due figlie di Fabio. Tra di noi, sul tavolo, c’è anche un vecchio registratore a cassetta: ha una ventina di anni alle spalle, funziona ancora e per il momento non c’è nessun motivo per dichiararne una senescenza forzata. Verde lo guarda come si osserva un oggetto fantasma. Per lei, come per noi, il design che conosciamo oggi ha meno di un secolo, ma ha già lasciato sulla strada una serie di ombre. Verde disegna, Novembre si racconta. Su Internet c’è un’overdose di informazione, nelle nostre memorie forse, chissà…

Partiamo da Deyan Sudjic: «Il design è il linguaggio che una società usa per creare oggetti che riflettono i suoi scopi e i suoi valori. È la chiave che ci permette di comprendere il mondo fatto dall’uomo». Un po’ come sosteneva Rogers quando diceva che se guardi bene un cucchiaio puoi capire molte cose di quello spicchio di mondo che lo ha prodotto. Credi anche tu che il design oggi – tra oggetti iconici e oggetti fantasma – abbia ancora una funzione di abbecedario sociale?

Credo sia parzialmente vero, anche se da tempo siamo circondati da una caotica esplosione di segni che si sovrappongono agli oggetti. Pensa al valore del logo per le aziende. Aziende che sono diventate multinazionali, che usano questi loghi in tutto il mondo determinando una sorta di colonizzazione visiva. Il cibo visivo è uguale dappertutto. Ti faccio un esempio: quando ho progettato la sedia Nemo per Driade volevo un oggetto che fosse privo di connotazione geografica (asiatica, occidentale, etc.), un oggetto che fosse né maschile né femminile. Più che il racconto di un mondo, nel design di questi ultimi anni credo sia prevalente la messa a fuoco del progettista, il suo punto di vista. Sei tu che disegni il tuo dna: se solo lo vuoi, puoi riconoscerti nel dna di geografie molto distanti. Per questo Nemo è così: l’ho disegnata io, che sono italiano, ma potrebbe essere stata disegnata in Nuova Guinea.

Fabio Novembre. Ritratto di Karen Hemmingsen.

Fabio Novembre. Ritratto di Karen Hemmingsen.

Il “qui” come un altrove: stiamo celebrando la fine del grande Risiko degli stati forti e delle nazioni deboli in termini non solo politico-economici, ma anche estetico-culturali?

Spesso cerco di capire quale possa essere il minimo comune denominatore degli italiani, ciò che li accomuna profondamente, ma non riesco ad andare oltre il linguaggio. Riusciamo ad andare in profondità solo con la nostra lingua. Se leggi Shakespeare in lingua originale capisci poco, non cogli le finezze. Devi leggerlo tradotto e allora ti accorgi che è stato trasferito su un altro tipo di poetica. Ti rendi conto che il solo fattore unificante è la lingua. Tutto il resto no: non le immagini, non la moda, non gli oggetti. Anche il nostro passato è così fortemente digitalizzato che in qualche maniera non lo ascolti più attraverso i ricordi dei nonni. Leggevo qualche giorno fa di memoro.org, un progetto di quattro trentenni che hanno deciso di raccogliere i ricordi di persone nate prima degli anni Quaranta, per una grande banca dati della memoria. Puoi ascoltare la testimonianza: ne sono state raccolte più di 61mila. E poi? Poi resta solo un’enorme confusione nel tracciamento di un ipotetico dna unitario. Essere italiani, dicevamo: ma che cosa vuol dire? Niente. Guarda i Mondiali di calcio: i giocatori vestono la maglia della propria nazionale solo perché sono nati in un certo luogo, come se io dovessi giocare nel Lecce e non in una squadra di Milano… Oppure guarda l’Inter: i tifosi interisti gioiscono per una squadra composta da undici elementi di nazionalità diversa: questo è un fatto!

Il calcio come paradigma di come va il mondo?

Mi piacerebbe scriverne un libro. Nel calcio, così come nell’arte o nel design, l’identità creativa va oltre la bandiera. Non puoi dire: Picasso era spagnolo, esprimeva un’arte assolutamente spagnola. Picasso esprimeva un’arte assolutamente internazionale. Fare un discorso identitario in base a riferimenti geografici è datato: i creativi di oggi sono come gangli di un unico sistema nervoso.

Cambia forse la geometria delle opportunità, non credi? Qualcuno diceva che il futuro è alla portata di tutti, ma forse non è equamente distribuito…

Beh, questo è evidente. E prima di avere un grande design proveniente dal Ghana dovremo aspettare molto tempo… Ma in Ghana il design, per come lo intendiamo noi, non riveste di certo un ruolo strategico, non sanno che cosa sia, non esiste, lo ignorano: non si pongono il problema di avere o meno un grande designer nazionale. Forse c’è anche da dire che quello che noi spesso riteniamo essere il centro del mondo, altro non è che una minuscola realtà. Parliamo di un ambito ristrettissimo, snobissimo, insignificante…

Fabio Novembre, Stuart Weitzman shop, Roma, 2006.

Fabio Novembre, Stuart Weitzman shop, Roma, 2006. Foto: Alberto Ferrero.

Quando il design acquista “senso”?

Acquista “senso” in esperienze come quelle di Yves Behar. Con fuseproject, Yves ha capito che il design oggi deve essere fatto con le aziende e non per le aziende. Esistono designer perfettamente funzionali alle aziende, vedi un professionista come Jonathan Ive che, insieme a Steve Jobs, ha fatto il successo di Apple. Poi ci sono i designer alla Bouroullec, alla Newson, alla Grcic, che fanno i battitori liberi. Io m’inserisco in questa categoria. Ecco, Yves sta a metà: è tra noi e quel mondo della progettazione che lavora a stretto con contatto con l’industria (i cosiddetti uffici stile…). Questa è un’operazione che si pone su una nuova dimensione, che produce un nuovo “senso”.

Yves Behar progetta oggetti, ma soprattutto traccia scenari: in passato ha disegnato con il MIT il celebre laptop da 100 dollari, quest’anno ha disegnato occhiali correttivi per bambini messicani. Il dato curioso è che di questi progetti sappiamo molto all’inizio ma – almeno per quanto mi riguarda – non mi è ancora capitato di leggere un resoconto davvero approfondito sull’effettiva diffusione dei portatili in Africa: quanti, come, con quali risultati.

Perché il sistema dell’informazione è sensazionalistico, legato alla novità. Ma le operazioni di Yves sono comunque molto importanti. Pensa al packaging studiato con Puma: prevede un risparmio del 70 per cento degli investimenti sulle sole confezioni, tonnellate di cartone. Certo, non è un caso che Yves sia “based in San Francisco”, la California della schizofrenia apparente, di un governatore repubblicano più democratico dei democratici. La California dove anche il nuovo negozio extralusso in Rodeo Drive deve accettare la norma che dice: tu non puoi usare più di questi watt, dunque tutte lampade a basso consumo, che tu esponga gioielli o letame.

Behar e l’innovazione. Di recente Forbes ha messo online un progetto – The Future by Design – dove il dato più importante è lo scarto in avanti garantito dall’evoluzione delle tecnologie. Più semplicemente, si afferma che il compito di un designer è riprogettare il progettato, affidandosi a “processi” all’avanguardia. Un discorso che vale per tutto: dal sistema dei trasporti al tostapane, al disegno delle interfacce.

A proposito di tostapane: ho visto quello progettato di recente da Naoto Fukasawa per il mercato giapponese. I tostapane sono sempre stati almeno doppi, invece questo è ultra slim, nasce per un uso individuale. Fukasawa non ha variato l’oggetto, ha semplicemente agito in funzione di una supposta carenza di spazio. Quello che mi chiedo però è: ma tutto questo dove porta? Siamo passati dalla cassetta al cd, e ora alla chiavetta usb. Cambia il contenitore ma la domanda di fondo è un’altra: e il contenuto? Da questo punto di vista, se vuoi parlare di approccio europeo, credo ci sia un’ultima generazione convinta che i nostri oggetti possano ancora veicolare dei messaggi. Yves Behar si mette con la sua fine intelligenza al servizio di cause più grandi, senza pretendere di fare lo script degli oggetti che progetta. È una differenza sottile, ma che in qualche modo ci/mi riscatta: se non la pensassi così mi sarei già ritirato.

Fukasawa e la rivoluzione delle piccole cose. Quest’anno i Brit Insurance Awards hanno premiato al Design Museum di Londra una spina elettrica ultra piatta, progettata per essere abbinata a computer sempre più sottili. Un po’ come se l’immaginario Apple, popolato di oggetti sempre più algidi e meno ingombranti, abbia imposto una “dieta” che diventa un trend di forte impatto.

Il processo di assottigliamento degli oggetti è imposto da questioni di spazio, ma non solo. Fino a qualche tempo fa, la telefonia ha inseguito il trend, trasformando i cellulari in ossi di seppia. Ora il mood sembra essersi invertito: gli smartphone di nuova generazione vanno di nuovo rimpolpandosi. È come se si stressasse un trend fino al limite, per poi ritrovare una specie di equilibrio. I trend servono sempre per forzare, per tirare l’elastico, per verificare il punto di rottura. L’equilibrio vero lo trovi solo nella fase successiva.

Fabio Novembre e l’architettura: tirerai mai l’elastico?

Non ho mai fatto architettura semplicemente perché non si è mai verificata una vera occasione. Ed è anche un problema di consuetudini: per imparare a fare le cose, banalmente devi farle, acquisirle. Ci sono designer come Karim Rashid che lavorano moltissimo e – pur non condividendone la facile prolificità – ti accorgi che più fanno, meno sbagliano. La consuetudine serve per affinare il gesto, per diventare sempre più padrone di quello che fai, e l’architettura non sfugge alla regola: va praticata. Spero di entrarci in confidenza quanto prima, ma in questo momento non rientra tra le opportunità che mi sono offerte.

Fabio Novembre, 100 piazze, 2007.

Fabio Novembre, 100 piazze, 2007. Design per Driade. Foto: Pasquale Formisano

Cioè?

È interessante fare un’analisi dei miei lavori oggi. Sarei nella condizione ideale, di maturità, per poter fare qualsiasi cosa, ma alla fine sono impegnato su cose che non mi fanno vibrare. Viviamo un momento di stallo, privi di vero entusiasmo. È una fase attendista dal punto di vista finanziario, economico, culturale, progettuale. Siamo tutti in attesa: scorgiamo i segnali di qualcosa che verrà, ma fatichiamo ad anticiparne i contorni. Tempo fa, ho presentato presso la sede dell’Ordine degli Architetti di Milano il mio ultimo libro: Il design spiegato a mia madre (Rizzoli, nda). C’era Franco Raggi. Ha fatto un po’ di critiche, sostenendo che il corpus del mio lavoro è buono ma anche superficiale, e spesso slegato. Sebbene non condivida il suo giudizio, la mia replica è stata chiara: questo è un periodo in cui è impossibile essere strategici, possiamo soltanto essere tattici. In questo contesto storico è difficile scrivere una regia perfetta delle proprie azioni, perché le azioni sono spesso piccole mosse a zigzag. È una guerriglia, non una guerra su uno scacchiere. Ti accorgi di dover sfornare soluzioni istantanee ai problemi. E in un siffatto contesto è anche molto difficile essere ambiziosi…

Ieri, Marcel Duchamp giocava a scacchi. Noi?

Noi siamo nati così. Ho aperto lo studio nel 1994 e non ho mai sentito intorno a me qualcuno che gioisse della situazione economica: anzi, la parola crisi è stata forse la più gettonata. Uso spesso la metafora del camminare in salita perché a detta degli altri è esattamente quello che stiamo facendo. Ma per me è come se stessi camminando in piano, perché ho sempre e solo camminato in salita. Gli anni Ottanta erano stupendi? Io negli anni Ottanta studiavo, ero un ragazzino, non so davvero che cosa siano stati.

Bisogna avere gli 80 anni di Alessandro Mendini per credere nell’utopia, il tema che ha rilanciato con la sua nuova Domus?

Credo che l’utopia di cui parla Mendini sia figlia di sue vecchie mappature del campo. L’utopia di Mendini risiede nella sua memoria, non è una utopia per i nostri giorni. È il suo sogno. Anch’io parlo di sogni, ma preferisco parlare di sogni personali, non riesco a parlare di utopie generalizzate. Posso raccontare i miei sogni, condividerli, e tutto questo è molto generazionale. Siamo figli di Internet: la condivisione è una tua scelta. Puoi accettarmi come amico, puoi accettare la mia amicizia, leggere il mio blog. Il processo alla base è un meccanismo di accettazione che non puoi imporre dall’alto. La condivisione non ha nulla a che vedere con l’utopia lanciata dai grandi seminatori alla Mao Tse-Tung.

Impossibile coltivare nuove utopie, dunque?

Che senso ha oggi parlare di utopia? Partiamo dall’etimologia del termine: utopia significa mancanza di luogo, direzione ideale, è una specie di cartello indicatore. Dovremmo iniziare a smorzarne il significato, non è una terra promessa, è un atteggiamento, un ethos, un abito da indossare giorno per giorno. Ecco, questa forse è la nuova utopia. Un abito che indossi la mattina, che togli la sera, che pieghi e rindossi il giorno dopo. Le inversioni non sono mai a “u”. Sull’intera lunga traiettoria di una vita, l’inversione di un centesimo di grado determina uno spostamento di cento chilometri sull’asse sul quale eri indirizzato. Il centesimo di grado oggi è più importante dell’inversione a “u” di domani. Sono quei centesimi di grado che ti portano da tutt’altra parte. Pensa all’ecologia, all’attenzione all’ambiente: non è che tutto a un tratto devi rivoluzionare la tua vita, le piccole cose contano tantissimo. Credo sia importante parlare di ethos come di una tattica “strategica” per la rivalutazione del presente.

È ancora possibile oggi avere un pensiero forte?

Io ci ho provato con la ripresa del Manifesto Futurista che avevo chiamato il Manifesto del presente come Ismo. Perché per me vale il presente. Il passato è andato, facciamone memoria, il futuro è utopia, non-luogo, deve arrivare, il presente è adesso. Il presente è figlio del passato e ipoteca sul futuro. La vita è un eterno presente, come un film fatto di tanti piccoli fotogrammi: presi uno per uno sono tanti “presente”. Per fare un film dobbiamo concentrarci a realizzare ogni singolo fotogramma. E per fare un fotogramma devi vivere l’attimo, devi metterlo a fuoco, perché se è sfocato, sulla lunga distanza ci saranno delle scene che non riuscirai a comprendere. Credo sia molto importante concentrarsi sul presente, impossessarsene. Il futuro e il passato ci hanno fatto perdere di vista il quotidiano. Lo vedi nell’Italia di tutti i giorni: scavi una buca, vedi le mura di chissà quale secolo e blocchi tutto. Un americano va a Roma, vede le rovine del Foro Romano e commenta: tutte queste pietre… Ecco, quell’ignoranza mi fa tenerezza, ma mi trasmette anche gioia perché significa capacità di andare avanti. Le nostre città sono costruite a strati. Se ci dovessimo fermare sempre e comunque a causa degli strati precedenti, non si andrebbe più avanti: non saremmo più qui a testimoniare il nostro tempo. Credo sia doveroso inseguire la contemporaneità come faceva Beethoven e come hanno fatto i Sex Pistols. Beethoven viene definito classico soltanto perché è passato tanto tempo, ma sia lui sia i Sex Pistols rappresentano la contemporaneità.

Il Fiore di Novembre. Cover di Emiliano Ponzi.

Il Fiore di Novembre. Cover di Emiliano Ponzi.

Nel 2008 la Besana, nel 2009 la Triennale: due grandi mostre monografiche a Milano con i progetti e i percorsi di una vita. Che bilancio hai tratto?

La mostra alla Besana è stata una retrospettiva monografica, con Beppe Finessi come curatore; la classica mostra con tutti i crismi. Quando, a distanza di un solo anno, la Triennale mi ha chiesto una nuova mostra, la cosa ha messo in crisi più me che loro. Dopo soli dodici mesi non ti inventi un’altra storia, i pezzi sono sempre gli stessi. Per la Triennale ho scelto di raccontare il mio percorso da una prospettiva completamente diversa: non c’è stato un curatore, né un progettista dell’allestimento. È come se avessi mostrato tutta la parte onirica nascosta dietro il mio lavoro. Anche i due cataloghi di Besana e Triennale rappresentano bene i due livelli di interpretazione, dividendosi il campo tra la realtà delle foto e la fantasia delle illustrazioni. Il catalogo de Il fiore di Novembre credo non abbia precedenti per la totale assenza di foto. Tutti i miei lavori sono stati trasfigurati da Emiliano Ponzi, come in uno storyboard in cui i miei testi e le sue illustrazioni nascevano discutendo insieme i soggetti. Vista a distanza, la mostra in Triennale mi assomiglia di più. C’era un approccio più passionale. Poi c’è stato anche il lutto per la perdita di mia madre, che mi ha colpito nel profondo: quel fiore è dedicato a lei, le sezioni del fiore erano come le tac della sua malattia, il rosso era la profondità carnale del nostro rapporto. Vivo lontano da casa da quando avevo 18 anni e non pensavo che la morte di un genitore mi avrebbe segnato così dolorosamente. Poi è accaduto e il trauma è stato molto forte. La madre rappresenta, anche simbolicamente, la soglia di ingresso al mondo. Quando lei scompare, quel mondo sembra chiudersi, non esistere più. In questo senso, il mio lavoro non ha segreti. Nell’immagine di copertina di Emiliano mi squarciavo il petto per trovarci un fiore. Il mio lavoro scava tra le mie ossessioni più profonde, non voglio che rimanga in superficie, ma che sia figlio degli stimoli del mio vissuto.

Da tempo ormai immemorabile il design viene esposto e venduto in musei e gallerie, quasi ci fossero più oggetti esibiti che vissuti. Che cosa ne pensi?

Prima ne pensavo tutto il male possibile, oggi mi rendo conto che è un trend inarrestabile. È un po’ anche il problema di Internet: basta un disegnino e il progetto non deve neanche più essere realizzato. Metti il cartellino e occupi il posto a distanza, il teatro può anche essere vuoto. La verità è che le industrie fanno numeri sempre più ridicoli, stiamo producendo alto artigianato. Ci sarebbe da chiedersi che differenza ci sia tra Giuseppe Maggiolini e Maarten Baas. Mi sembra tutto un po’ speculativo: cosa preferire tra un concept store e l’industria? Per quel che mi riguarda, io continuo a preferire chi rischia di più, quindi l’industria, e non chi dice: bene, mi piaci, ti espongo, poi se vendo ti do una percentuale…

Tornando a parlare di oggetti. Milano ha accolto una delle stagioni più felici del design internazionale: quella dei grandi vecchi del design made in Italy, un moloch pesantissimo. Possibile affrancarsene?

Io un po’ ci sono riuscito. La celebrazione dei tempi eroici può sottrarre valore al tempo che stai vivendo. La mia azione e riflessione sul presente passa attraverso la conoscenza del passato, senza idealizzarlo. Stiamo vivendo il nostro tempo, non possiamo sceglierlo, possiamo solo riempirlo di senso. Quando parliamo male del tempo in cui viviamo, della nostra città, in fondo stiamo parlando male di noi stessi. La vita è un lungo processo di riconciliazione con sé stessi, prima che con gli altri. Oggi, a 43 anni, posso dire di essermi perfettamente riconciliato. Spingo per creare sinergie. Due settimane fa sono andato a un matrimonio: viaggiando in macchina con Candela, mia moglie, ascoltavamo Lou Reed. Alla fine abbiamo tirato le somme: Lou Reed faceva parte di un entourage meraviglioso, la Factory di Andy Warhol, un ribollio che li vedeva giocare in squadra. Le canzoni di Lou Reed sono affreschi dei tempi che stava vivendo. Sono microstorie di persone, di gente che arriva a New York. C’è il barista e c’è la tizia che vuole fare la ballerina e fa la puttana. Lou Reed in questo senso è molto basico. Ho pensato che se sapessi disegnare, questi prossimi mesi li dedicherei a illustrare le canzoni di Lou Reed. Sono dipinti, dipinti con le parole. Lou Reed ha la capacità di trasfigurare la realtà. Se riuscissimo a restituire il presente con gli occhi dell’arte, facendolo diventare più bello, allora sì che avremmo fatto bingo.

E invece?

Invece viviamo sempre più isolati. Warhol diceva: potete entrare e stare tutti nella mia Factory, l’importante è che non mi tocchiate. Tradiva una idiosincrasia verso la gente, ma aveva una curiosità morbosa per la vita, a cui non poteva rinunciare perché lo nutriva.

Andy Warhol, per molti un genio, certo non un benefattore…

È indubbio: non a caso lo chiamavano Drella: un incrocio tra Dracula e Cinderella… Ma sai quanta energia metti in circolo?

Ettore Sottsass e Fabio Novembre, 2007. Foto: Leo Gullbring

Ettore Sottsass e Fabio Novembre, 2007. Foto: Leo Gullbring

Energia ma anche distruzione: per nutrirsi a volte ci vuole una buona dose di cinismo, non credi?

Distruzione e autodistruzione sono sempre a un passo da noi: io, incontrando Candela e facendo due figlie, ho scelto di camminare un po’ più distante dal “wild side”.

Torniamo ai nostri grandi maestri e al mondo dell’abitare. Alcuni sostengono: dopo di loro il nulla.

Diciamocelo: i grandi maestri erano un gruppo di frustrati di successo. Erano tutti laureati in architettura, ma erano impossibilitati a costruire perché nel secondo dopoguerra i costruttori erano già degli speculatori. L’andazzo era: ehi tu, hai un po’ di paranoie estetiche? Allora ciao… Chiamo il mio geometra, che fa quello che voglio io.

Vico Magistretti ha costruito.

Vico Magistretti ha costruito tardi, per clienti ricchissimi e molto snob. In ogni caso, non ha fatto case popolari. I grandi maestri, ripeto, erano degli amabili, dotatissimi frustrati. Dicevano: scusate, stiamo lavorando a una rivoluzione copernicana, ripartiamo dagli oggetti per rifondare la società. Ma questa scelta era determinata solo dal fatto che dall’altra parte c’era un muro. Nel dopoguerra, non c’era nessuna città da costruire, almeno per i loro parametri. La committenza immobiliare era già ingorda nel 1946 e da allora non è cambiato quasi nulla: si facevano e si fanno cose orribili. Anche a Milano. Prendi un edificio in costruzione: guardi chi ci lavora e mai che ci sia un nome conosciuto come progettista, solo diecimila signor nessuno. Hai sentito la storia del cemento impoverito nel Sud Italia? È l’assenza di cultura legata all’edilizia, è quella che ha massacrato il nostro paese. Nel dopoguerra, pensare di ripartire da zero disegnando oggetti è stato romantico, ma non ha sortito gli effetti che si immaginavano i nostri amici frustrati di successo. Forse il loro sogno ha alimentato i nostri cervelli, la nostra capacità di sognare, ma non ha cambiato la nostra vita. Guarda la casa media dell’italiano: è una casa senza gusto, gli oggetti non hanno mai sfondato il muro della produzione industriale. Anche oggi, se guardiamo i numeri, possiamo dire che facciamo solo dell’alto artigianato.

Con quali risultati?

Oggi è importante l’onda d’urto teorica, non arrivare in tutte le case come prometteva l’utopia originale. La mia generazione non fa oggetti ma metaprogetti. E qui ci si deve accontentare.

E l’industria come reagisce?

È molto difficile. Se i Cesare Cassina e i Piero Ambrogio Busnelli potevano un tempo fare cinque errori di seguito e non rischiare, oggi al primo errore puoi essere fuori. È evidente che oggi nessuno vuole e può rischiare. Si seguono trend già tracciati, si imitano cose di successo. La ricerca è penalizzata.

La storia dei grandi marchi del design nasce spesso da una realtà familiare. Oggi molti brand sono riuniti sotto il grande cappello dei fondi di investimento. Non è che questi nuovi asset abbiano in qualche modo inciso anche sulla propensione al “rischio”?

Ci sono aziende che hanno perso il sessanta per cento del fatturato per una campagna pubblicitaria sbagliata: magari perfetta, ma mal recepita dal mercato. Questo per dire che se oggi provi a uscire dal seminato, il mercato ti punisce. Il nostro è un ambito per pochi intimi, per intellettuali, siamo marginali.

Fabio Novembre, Nemo, 2010.

Fabio Novembre, Nemo, 2010. Design per Driade. Foto: Settimo Benedusi.

Con quale criterio accetti o rifiuti un progetto?

Istinto. Annuso subito quando ci sono margini di crescita comune, e non mi fermo più al carattere di una persona. La maturità mi ha insegnato che puoi anche sentirti molto distante dal tuo interlocutore, ma ciò non toglie che puoi condividerne gli obiettivi. E non è mai una questione economica!

Ettore Sottsass diceva: «Cosa mi importa del bel design di un frigorifero, del frigorifero mi importa il freddo che fa. La commedia che fanno in questi tempi sul design a me sembra molto acida, perché giustificano altre cose con questa idea che il design appartiene all’estetica e storie di questo genere. Ci sono stati momenti, rari, nei quali il design zitto zitto sentiva questa responsabilità verso il pubblico, verso la società. Roberto Olivetti sentiva questa responsabilità. Sentiva che l’industria aveva questa responsabilità morale e lavorava con ingegneri, urbanisti, architetti e designer, perché pensava che l’industria potesse fare qualcosa di più che produrre. Pensava che fosse importante avere immaginazione».

Oggi chi avrebbe gli strumenti per progettare e produrre con immaginazione non lo fa. Chi potrebbe avere i numeri per fare la differenza non li usa. La verità è che oggi i ricchi vogliono fare gli artisti e non vogliono più fare i mecenati. Olivetti si rendeva conto di avere una potenza di fuoco enorme e il suo apporto consisteva nell’offrire possibilità da condividere con altri soggetti, a cominciare da Ettore Sottsass, che era un grande visionario. Oggi chi ha i mezzi pensa di potersi comprare qualsiasi tipo di vita, ma io credo che a qualcosa si debba saper rinunciare. Ogni parte che si decide di recitare nella commedia della vita ha un senso. Noi uomini siamo una sorta di modello fordista applicato, siamo una specie di catena di montaggio: chi crede di essere autosufficiente è un pazzo.

Mai pensato di insegnare?

Per il momento no. Ma ricordo Nam June Paik, che ho conosciuto a New York. Aveva una cattedra in Germania e veniva spesso attaccato perché non andava mai a lezione, pur prendendo uno stipendio. E lui ribatteva: «A good teacher is one who is not teaching…».



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