Lara Favaretto
Back to the future #38

22 Novembre 2013

A grande richiesta, abbiamo deciso di pubblicare sul sito le lunghe e straordinarie interviste apparse sul magazine cartaceo dal 2009 al 2011. Quaranta trascinanti conversazioni con i protagonisti dell’arte contemporanea, del design e dell’architettura. Una volta alla settimana, un appuntamento da non perdere. Un regalo. Oggi tocca a Lara Favaretto.

Klat #02, primavera 2010.

Ho come la sensazione che molte parti importanti della mia conversazione con Lara Favaretto non siano incluse nel testo che segue. L’intervista è avvenuta a più riprese, con continue modifiche, ripensamenti, cancellature e riscritture. Avevo la netta sensazione di trovarmi idealmente dentro a un processo di gestazione di un’opera, ma senza opera. Anche ora, a intervista ultimata, le riflessioni tra una domanda e l’altra, a registratore spento, sono andate perdute. Rimangono chiuse, ermeticamente sigillate nel suo lavoro. L’artista ne cita uno in particolare che mi aiuta a visualizzare questa mia sensazione di perdita, Lost & Found, una serie di valigie che riempie di oggetti e che chiude poi con un lucchetto. È dal 1997 che l’artista compie questo gesto, buttando poi via le chiavi. Difficile, profonda e acuta, Lara Favaretto non ha mezze misure nel suo lavoro, non sceglie mai la via più facile per cogliere l’inatteso, l’imprevedibile, a volte l’impossibile. Abbiamo parlato molto di fallimento, ma non come sconfitta, bensì come processo di svelamento del feticcio estetico celato dietro all’opera d’arte: oggetto oscuro, santificato e occultato al tempo stesso. Ogni tanto ha riso, ma non così spesso come pensavo prima di iniziare la nostra conversazione. Dal testo, è stata tolta un’ultima domanda, altrimenti senza risposta. Una risata ci seppellirà? Che è poi una citazione di un suo lavoro E una risata vi seppellirà (Omaggio a Gino De Dominicis), del 2005. Lara ha preferito mettere fine alla nostra conversazione parlando di dignità, chiedendomi: «perché, credi che bisognerebbe parlare d’altro?».

Hai quasi dieci anni di lavoro alle spalle. Dai primi lavori, penso a Matrice#1/#2/#3, Contorni o Curva, tutti del 1997, alla grande installazione Momentary Monument (Swamp) dell’ultima Biennale di Venezia.

Dieci anni e più a chiedersi probabilmente le stesse cose. Nel 1995, a Londra, ho passato molto tempo a lanciare una gomma da cancellare gialla contro un muro bianco: ogni giorno qualche ora, filmando il tutto. Di quel girato, ho salvato solo dieci minuti, senza montaggio. Mi ricordo che in quel periodo ero di pessimo umore, più di adesso, anche perché c’era sempre troppo e sembrava sempre poco.

Quale era il titolo di questo lavoro?

Structure. È il mio primo lavoro e assomiglia a molti altri venuti dopo, come Unità strutturale, del 1997, un’idea basata sulla realizzazione di un muro portante con elementi mobili. Ma penso anche ai modellini di architettura progettati per essere degli spazi mentali, quasi “tascabili”, che riflettevano il desiderio di ridurre la realtà ai minimi termini. Penso alla fotografia di uno spazio bianco, dove gli oggetti si riconoscevano solo attraverso le loro ombre. Tutte opere concepite per sottrazione. Una vale l’altra, del 1999, è il titolo che ho dato a una serie di fotografie scattate durante le prove di un coro, durante le esercitazioni. Ogni scatto era buono.

Stavi già individuando il metodo di lavoro che hai mantenuto fino a oggi?

Credo che il metodo sia qualcosa che imposti all’inizio e che poi lasci evolvere, naturalmente. Col tempo, ho imparato a registrare e archiviare percezioni e immagini crude, in modo automatico, a leggere dettagli in uno stato d’immobilità, con uno sguardo incantato, imperturbabile.

Cosa intendi precisamente per sguardo incantato?

Non è certo l’occhio di vetro, ma un tipo di concentrazione, un distacco dalle cose. È una condizione che accorcia il tempo, uno stato di assenza che si può interrompere in un batter d’occhio. Un po’ quello che accade in un secondo e mezzo in Too Fast, del 2006: un video realizzato velocizzando, al massimo delle possibilità tecniche, un altro video montato in loop, La terra è troppo grande, esposto durante la Biennale di Venezia nel 2005.

Lara Favaretto, Lost & Found, 2008. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino

Lara Favaretto, Lost & Found, 2008. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino.

Concentrazione, distacco, assenza. Come prende forma l’opera, come si realizza?

Uno stato di concentrazione è una condizione d’indagine e consente di visualizzare un progetto, non di realizzarlo. Rido ripensando al consiglio che mi ha dato un’amica durante la preparazione di Momentary Monument (Swamp), la palude dell’ultima Biennale di Venezia. Mi disse che avrei dovuto passare un po’ di tempo in un centro benessere, facendo tanti fanghi, unendo così l’utile al dilettevole. Era uno scherzo, certo, ma spesso il miracolo accade nella totale distrazione. La realizzazione di un lavoro è un processo che alterna ansia, sviluppi rettilinei e cambi di rotta. Alla fine del processo, giunti a una conclusione, ritornano in mente le varie possibilità scartate. E tutto rinasce con un nuovo progetto, seguendo vecchie e nuove suggestioni, in un nuovo spazio di lavoro, con nuovi collaboratori. Con i collaboratori condivido tutto il progetto, mettendo spesso in discussione la mia idea iniziale. Non ho uno studio o un luogo per testare e realizzare cose, ho solo un archivio.

Come s’inserisce questo processo nella preparazione di un lavoro per una mostra?

Non c’è un’opera per una mostra, ma un vecchio progetto che viene riconsiderato per uno spazio specifico. Ideare un progetto significa dare corpo a un’apparizione, e spesso tutto nasce da una suggestione conservata nell’archivio, che si trasforma nel fermo immagine di un mio film immaginario. La realizzazione di un’opera è indipendente dal tempo, ed è naturalmente legata a uno spazio, a un contesto. Lo spazio e l’opera molte volte non si distinguono. Da tempo, mi chiedo come fare una mostra senza farla, ma tu questo non me l’hai chiesto…

Come si può fare una mostra senza farla?

È una delle quattro domande che ho scritto su un muro per una mostra del 2008: Why another Show? Why another Space? Why another Magazine? Why another Work? Forse una mostra non-fatta è quella che mette in scena uno spazio della perplessità, ma non lo so… Momentary Monument, l’installazione che ho realizzato a Trento nel 2009, era anche un po’ questo. Se sapessi come fare una mostra senza farla, l’avrei già prodotta anni fa: è una delle cose che avrei voluto fare fin dall’inizio della mia carriera. Mi ricordo che quando vivevo a Milano avevo cominciato a lavorarci con il mio portinaio.

È possibile, per un artista, parlare di un’opera senza produrla?

Un’opera va sempre prodotta, anche se questo significa dover togliere, rimuovere. Realizzare un’opera, per me, è come estinguere una possibilità, invalidare una presenza: un po’ come quando nessuno si accorge che ci sei e realtà tu sei lì. Preferisco parlare dei motivi che fanno sparire un’immagine, di come questa venga vandalizzata. Mi piace passare dalla perfezione alla caduta, spingere l’opera al suo punto critico, al suo limite, metterla a rischio fino a farla cedere, inceppare, crollare. Una irregolarità viene amplificata fino a generare uno stato di crisi, d’impotenza. È come se si passasse dalla ipermodernità a uno stato primitivo.

Quando hai capito che il tuo lavoro stava andando in questa direzione? C’è un’opera che ti ha indicato questa strada?

Non mi è chiara la tua domanda. Faccio un lavoro che mi permette di progettare una sola grande immagine, che mano a mano si costruisce come una sorta di atlante. Tutto dovrebbe incastrarsi e coincidere, ma soprattutto nulla si deve ripetere. Prendiamo la performance realizzata nel 1998, Doing, e il Momentary Monument realizzato a Bergamo l’anno scorso: hanno una processualità simile, la stessa attitudine. Mentre il primo è la riduzione in polvere di tre massi di marmo, il secondo lavoro è la costruzione, in granito indiano, di un salvadanaio pubblico distrutto nel febbraio del 2010.

Ci sono altri tuoi lavori che raggiungono lo stato d’impotenza di cui parlavi?

È un aspetto che si trova nella maggior parte dei miei lavori. Costruisco un paradosso che accosta il cinismo, come forma di debolezza, alla pietà, come indagine sentimentale. La sorte che tocca ai miei lavori li rende simili a delle cavie. Ci sono due opere in cui questa relazione è più evidente: È così se m’interessa e Cominciò ch’era finita, entrambe del 2006. Nel primo lavoro c’è una corda di canapa, con una parte rivestita in pelle nera, appesa al soffitto, che viene sconquassata tramite il braccio meccanico di un motore. Nel secondo, c’è la ricostruzione di una giostra travestita da macchina da guerra: un travestimento fatto di trentadue tende militari tedesche cucite insieme. Sono entrambi congegni minacciosi che, ruotando su se stessi e urtando contro le superfici circostanti, s’imbruttiscono, si deteriorano, si lacerano, e attraverso la loro stessa usura svelano nel tempo, lentamente, il feticcio estetico nascosto.

Anche in Plotone (2005/2008) noto questa tensione tra opposti: una schiera di soldati inermi e rigidamente impavidi, che sembrano non aspettare altro che la propria fine, per sfinimento. Patetici e inquietanti al tempo stesso.

Quando sono stata invitata a installare Plotone, ho chiesto di affittare delle bombole di azoto, specificandone solo le dimensioni. Il protagonista è un plotone, una “forma solida” che sembra dichiararsi sconfitta e che si dimostra indifesa se viene attaccata. È uno schieramento di bombole, realizzato utilizzando contenitori funzionali che non necessitano di cure. Il loro deterioramento è spontaneo e non indotto. È un drappello di soldati immobili, in pausa obbligata. Una pausa interrotta dal suono della pressione dell’aria che esce da ogni singola lingua di suocera, a un ritmo casuale stabilito a priori con la programmazione di timer ed elettrovalvole.

Lara Favaretto, Momentary Monument (Swamp), 2009. Making Worlds/Fare Mondi, 53.Biennale di Venezia. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino

Lara Favaretto, Momentary Monument (Swamp), 2009. Making Worlds/Fare Mondi, 53.Biennale di Venezia. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino.

Ti fa arrabbiare che alcuni tuoi lavori, penso a I poveri sono matti (2005/2008) o Confetti Canyon (2005), siano stati considerati come opere allegre e divertenti?

Mi piace che un’opera si presti a varie interpretazioni. Alcuni pensano che Plotone sia un funny work, io aggiungo un funny game. Quando ne parlano come qualcosa di allegro e divertente, preferisco rispondere con qualcosa di funereo. Mi creano una sorta d’imbarazzo simile quando mi chiedono se sono felice. I due lavori che hai nominato hanno in comune il fatto di essere delle performance, con una differenza: I poveri sono matti è un progetto che si sviluppa e sparisce nell’arco di pochi giorni, mentre Confetti Canyon dura solo poche ore. Il caravan e il cannone, protagonisti delle due apparizioni, spariscono e ritornano al deposito: un accampamento Rom nel primo caso, un museo nel secondo. È quello che è accaduto anche con Treat or Trick, un lavoro che ho realizzato dopo il mio viaggio a Cuba, mentre giravo il film con Sandra Milo durante il Carnevale di Santiago. È una performance progettata come una parata composta da quattordici maschere in cartapesta, indossate e fatte sfilare per la città, senza che nulla sia stato annunciato prima. Spesso la parata è stata fraintesa. Alla fine della performance, le maschere sono state depositate nello spazio del museo, in attesa di un nuovo giro per le piazze o di un’ultima apparizione prima di essere definitivamente bruciate. Perché, come sempre, quando una festa finisce tutto deve ricominciare da capo.

In seno a Treat or Trick è nato un altro lavoro, meno conosciuto: Bulk, del 2002. Due opere molto legate tra loro, ma molto diverse.

Di Bulk posso dire che è uno dei lavori di cui ho ancora difficoltà a parlare, non tanto per quanto riguarda l’aspetto formale, ma piuttosto per quello processuale. Bulk è un’installazione composta da ventotto forme anonime di gesso, unite in coppia e tenute assieme da cavi di plastica da imballaggio. È un lavoro che ho realizzato senza esserne consapevole: ho visto le forme utilizzate per creare le maschere di Treat or Trick ed è nata l’idea. Bulk è stato costruito in due mesi e mezzo, all’interno di un hangar, con la collaborazione di trenta uomini volontari. Il lavoro consisteva nella realizzazione degli stampi in gesso a partire dalle forme originali, modellate in creta a grandezza naturale. Una fase intermedia, funzionale, che consentiva di ottenere il negativo e clonare almeno altre due volte il lavoro Treat or Trick. La realizzazione, affrontata da tutti senza alcuna cura per il dettaglio, l’estetica e la scelta del materiale, è avvenuta utilizzando qualsiasi pezzo di giornale o di legno ci capitasse tra le mani.

Parlavi di un’incursione nell’ambito cinematografico. Come hai vissuto questa esperienza e cosa ti ha lasciato? In una nostra precedente conversazione, mi raccontavi che la tua vera passione, in realtà, non è l’arte, bensì il cinema.

Il cinema è un’apparizione, è un’esperienza che tiene alta l’immaginazione, come fa a non piacermi! Mi faccio delle maratone di film. Realizzo ogni installazione come se fossi all’interno di un film, la concepisco come l’architettura di una visione. Tornando alla tua domanda: ho fatto un film nel 2001 e prevedo di non farne più a quelle condizioni. La mia decisione di realizzare un lungometraggio è nata dopo l’incontro con Berardo Carboni. Da subito si è instaurata una fitta discussione a sequenze, quasi uno story-board. Poi è nata una sorta di sceneggiatura, una forma leggera che può ricordare Permanent Vacation di Jim Jarmusch. Ci siamo immaginati una storia sulla sparizione di un’icona: Berardo pensava ad Alvaro Vitali, io a Giulio Andreotti, ma alla fine abbiamo puntato su Sandra Milo! Il soggetto è piaciuto, più volte mi sono chiesta se il produttore ne capisse di cinema o fosse un pazzo. Berardo era all’inizio, con soli due cortometraggi alle spalle, e io non avevo alcuna esperienza sul set. È stata una vera e propria full immersion. In breve tempo abbiamo scritto un trattamento cinematografico, ci siamo confrontati con il produttore, abbiamo messo insieme la troupe e girato il film. Durante le riprese, il nostro approccio era forse goffo, da dilettanti, ma io ero ugualmente a mio agio perché il film era stato impostato, per metà, con una struttura analoga a quella del mio video Sollevarlo non vuol dire volarlo, del 1999, cioè con molta improvvisazione. Mi sono dimenticata di dirti il titolo… Buco nell’acqua (ride, nda). È una storia lunga da raccontare. A film finito, il montaggio venne considerato poco televisivo da chi doveva acquistare il film. Buco nell’acqua venne quindi nuovamente editato da un montatore esterno e in seguito acquistato da Mediatrade. Forse un giorno lo faranno vedere di notte, a poche ore dalla morte di Sandra Milo, in uno speciale…

A proposito dei tuoi video, Sollevarlo non vuol dire volarlo e Shy as a Fox sono stati considerati come flussi di storie minime, cronache impressioniste di gente comune. Cosa volevi raccontare con queste due opere? Cosa ti interessava rivelare?

In Sollevarlo non vuol dire volarlo ho coinvolto un gruppo di amici, a me sconosciuti, organizzandoli come all’interno di un coro. Per loro, si trattava di una scampagnata in collina, una domenica mattina, ops fa anche rima… Le persone coinvolte, dovevano confrontarsi tra loro e trovare il modo di sollevare un asino, tenendo presente che l’asino vola… E io osservavo. Era come se si perdesse del tempo, creando così un buco temporale. Con Shy as a Fox, del 2000, sono stata invece in alcune città italiane, registrando più di settanta storie, alla ricerca della verità sulla storia del sogno della volpe. Ne ho editate solo alcune, cercando di creare un paradosso tra la mia domanda e l’imprevedibilità delle risposte. Ho incontrato delle persone straordinarie, a volte disarmanti.

C’è un nesso tra la scelta della volpe, animale simbolo dell’astuzia, e il fatto che lavori in un sistema, quello dell’arte contemporanea, in cui avere una strategia e una buona dose d’astuzia conta molto?

Non so come si possa fare strategia con l’arte, mi sento a disagio. Mi dà l’idea di qualcosa di noioso e lontano. Non mi sono mai posta un problema di questo tipo. Quando ho scelto la volpe, non mi riferivo a una condizione specifica del mondo dell’arte contemporanea, ma piuttosto alla condizione umana.

Volevo capire se avevi un’opinione su chi pensa che le opere d’arte siano solo il 50% della riuscita di un artista. Tutto il resto sono buone relazioni, buoni contatti.

Non farmi diventare ancora più noiosa di quello che sono già stata! Di cosa stai parlando? Di percentuali? Ci sono troppe incognite ed è meglio non perdere tempo con queste cose. Meglio raccogliere e buttare, come adoro fare dal 1997 accumulando valigie. Una volta l’anno ne sigillo una dopo averla riempita di cose, la chiudo con un lucchetto e butto via le chiavi. È vero! Tu vuoi il titolo, Lost and Found, ma non ti dico l’anno perché non so a quale riferirmi.

Dalla tua risposta, penso che tu non abbia più nient’altro da dire sull’argomento. Torniamo a parlare del tuo lavoro, che mi sembra l’unica cosa che realmente ti interessa.

Non è vero! Possiamo parlare di tutt’altro, sarebbe più divertente. Fai tu le domande! Io non cerco di avere buone relazioni, non conosco molte persone e non ho, quindi, grossi gossip da raccontare. Non esco mai, anche se viaggio molto. Compaio raramente.

Lara Favaretto, È così se mi interessa, 2006. Collezione MAXXI, Roma. Photo: Paolo Pellion di Persano

Lara Favaretto, È così se mi interessa, 2006. Collezione MAXXI, Roma. Photo: Paolo Pellion di Persano.

Ho notato che sei sempre in viaggio e per fare questa intervista hai dovuto pianificare il nostro appuntamento con un mese di anticipo. Immagino che le mostre siano il motivo dei tuoi viaggi. Penso di essermi persa dei passaggi, eri a Londra, ad Aspen e poi a Glasgow, dove hai inaugurato la tua personale lo scorso ottobre alla Tramway.

Infatti, ho una vita personale che non ha bisogno di essere raccontata: non c’è! Ho scoperto che Glasgow è una città straordinaria. La personale alla Tramway,  Absolutely no Donation, è la mia prima mostra di pittura, ti sembrerà uno scherzo. L’intera installazione era un omaggio a Barnett Newman ed era composta da diciassette quadri che ho messo in relazione con tre cubi di soli coriandoli pressati a mano, in attesa spontanea del loro inevitabile collasso. Alle pareti, invece, i quadri giocavano sia con le dimensioni e i colori, sia con il movimento e la velocità. Ogni singolo quadro era composto da una o più spazzole dell’autolavaggio, di colori diversi, che, girando su se stesse, creavano una superficie elettrostatica generata dall’attrito della plastica con il metallo. Le spazzole lucidavano le lastre di ferro su cui erano fissate e producevano, sulle lastre e sul muro, una sagoma irregolare di polvere e frammenti colorati, creati dal loro lento deterioramento. Quest’azione trasformava infine le spazzole in automi, che giravano senza alcuna opposizione o attrito in quanto consumate, anche solo parzialmente. I cubi erano composti di 150 kg di coriandoli neri, mescolati, in percentuale sempre diversa, a coriandoli colorati.

Barnett Newman voleva fare tabula rasa della tradizione pittorica, voleva ripartire da zero come se la pittura non fosse mai esistita. La sua teoria aveva un senso negli anni Quaranta, ma citarlo ora non è un po’ azzardato?

Forse non aveva nemmeno senso negli anni Quaranta, forse ogni lavoro dovrebbe fare tabula rasa. È il sogno di chiunque, non solo degli artisti. Chi non vorrebbe provare il piacere di resettare e ricominciare tutto da capo? Cito Barnett Newman, ma potrei citare anche Joseph Conrad, Jean Vigo e tanti altri. Ignorare il passato è una finzione ipocrita. Oltretutto, abbiamo superato da tanti anni l’ossessione per il Postmoderno.

Pensavo lo citassi in relazione al fatto che consideri  Absolutely no Donation una mostra di pittura. Perché la pensi in termini pittorici?

Per quale altro motivo avrei dovuto citare Newman? Io non sono un pittore, ma le mie immagini lo sono. Luchino Visconti, Olivier Assayas, Friedrich Wilhelm Murnau e Alejandro González Iñárritu non hanno forse realizzato dei quadri coi loro film? Potrebbe essere intrigante riflettere sulla domanda: in che modo una installazione si può considerare in termini pittorici?

In che modo una installazione può essere considerata in termini pittorici?

In vari modi. Un esempio, oltre ad Absolutely no Donation, può essere il lavoro che ho realizzato all’Arsenale per la 53.Biennale di Venezia. So che molti non l’hanno visto, ma magari perché era lontano (ride, nda). Il lavoro di cui sto parlando è il già citato Momentary Monument (Swamp), una palude tagliata da una lama dorata e custode di un segreto sepolto. Si tratta di oggetti che ho dedicato a tutti o ad alcuni dei ventitre scomparsi su cui si basa l’intero progetto. Quello degli scomparsi è un mondo umorale e intrigante che non finisce mai. Gli scomparsi sono anche coloro che invecchiano con le loro idee e in questo modo proteggono le loro visioni. Comunque, è una ricerca ancora in corso. In Momentary Monument (Swamp) non c’è discontinuità tra l’opera e lo spazio che la ospita: questo la rende pittorica.

Riguardo a Momentary Monument (Swamp), in molti si sono chiesti se effettivamente erano sotterrati degli oggetti. È un’opera molto densa di rimandi: gli ipotetici oggetti sepolti che marciscono assieme a immaginarie figure di illustri scomparsi. Perché dedicare una palude, o «terra di nessuno», come l’ha definita in un suo articolo Tom Morton (Frieze, issue #126, October 2009), allo scrittore Ambrose Bierce, all’artista Bas Jan Ader, al viaggiatore Christopher Johnson McCandless e al campione di scacchi Bobby Fischer? Solo per citarne alcuni.

Un’opera non è sempre una terra di nessuno? La palude è un’idea e una sensazione, prima ancora di essere un’immagine. È uno stato delle cose e mi sembra possa definirsi come lo spazio che inghiotte senza alterarsi. È una sorta di pozzo dei pazzi, un cimitero sommerso. Non ama le definizioni e archivia documenti ignoti, diventa deposito di desideri. Quale luogo più adatto per chi vuole ricominciare a essere anonimo e rimanere indisturbato?

L’opera che hai installato a Venezia è quasi contemporanea ad altri due Momentary Monument: un grande salvadanaio posto in una piazza di Bergamo e quello a Trento, Wall, dove hai eretto un muro di sacchi di sabbia attorno a un monumento dedicato a Dante. Tre opere, con tre gestazioni e messaggi differenti: sparizione e morte nel primo, altruismo e solidarietà nel secondo, difesa e spazio della complessità a Trento. C’è un nesso tra le tre opere? Spiegami che significato dai a Momentary Monument.

Io parlo di perplessità, non di complessità. Impossibile ma reale, usando parole non mie. Fai un’opera e poi la distruggi: perché deve sparire, come ogni cosa. Perché per un’opera d’arte dovrebbe essere diverso? Tutto il resto è così. Quali straordinarie riflessioni faremmo se ci fosse un terremoto e crollasse un museo, per esempio? Andrebbe perduta l’intera collezione acquistata nel tempo. Sarebbe triste, ma potrebbe accadere. Quale sarebbe la differenza rispetto a un monumento temporaneo? Momentary Monument è il titolo di una serie di progetti che hanno in comune un paradosso linguistico. Per la distruzione del grosso masso di granito indiano, ho collaborato con specialisti al fine di progettarne la spaccatura e la definitiva distruzione. Per il muro di sacchi di sabbia, invece, lo smaltimento è avventuto attraverso un atto vandalico autorizzato, così l’ho definito. La palude è ancora un’altra cosa, è una bonifica del territorio ed è folle che con la fine della Biennale la palude smetta di essere art work e ritorni a essere quello che era prima, con la differenza che adesso è terreno fertile…

A proposito di Trento. Quell’installazione ha suscitato un gran dibattito, sia in fase di costruzione sia nei giorni seguenti alla sua inaugurazione. Tra i tanti articoli pubblicati, uno mi ha colpito particolarmente. Questa opera è stata paragonata alla Torre di Babele, crollata per distanze linguistiche. Arte come linguaggio incomprensibile, dunque: l’arte non capisce il popolo e il popolo non capisce l’arte. Prevedevi di essere fraintesa con questo lavoro?

L’inserimento di una qualsiasi realtà aliena in uno spazio pubblico è un’operazione che va adeguatamente spiegata, comunicata nel modo più appropriato. Il fraintendimento lo avevo previsto e mi divertiva l’idea che il muro di sacchi di juta potesse anche essere visto come un set cinematografico per un documentario della Prima guerra mondiale, la realizzazione in scala naturale di un gioco da tavolo fatto di soldati e carri armati, la costruzione di una protezione in caso di allagamento annunciato o semplicemente il restauro della statua del Dante. Momentary Monument, realizzato per Trento, non
è niente di tutto ciò: è una trincea. È un rifugio desideroso di compassione, goffo ma tenace, è un luogo dove ricapitolare e riordinare lo stato delle necessità, facendo riemergere, magari, una sensibilità più intima e umana. È un muro senza alcun appiglio estetico, brutto e attaccabile, costruito per produrre il luogo della perplessità e dell’anonimato. È la costruzione di uno spazio assente, è un buco figurativo. È una forma arcaica e brutale, e, dopo il crollo, anche drammatica. È un’apparizione informe e irritante, tanto da provocare sfiducia.

Lara Favaretto, Bulk, 2002. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino. Photo: Ela Bialkowska

Lara Favaretto, Bulk, 2002. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino. Photo: Ela Bialkowska.

C’è un lavoro, rimasto però ancora in fase di progetto, di cui vorrei che mi raccontassi la storia: Project for a Utopia. Consiste in una grande mongolfiera a forma di asino che attraversa l’Europa, ospitando politici, opinionisti, celebrità che discutono sul concetto di dignità. Ho letto che in questo lavoro poni l’accento proprio sulla parola dignità come minimo comune denominatore, fondamentale per tutti i diritti dell’uomo.

È un progetto perché non è ancora stato realizzato, ma tutto è pronto. È stato scritto nel 2001, dopo aver realizzato Mondo alla rovescia. Sarà una mongolfiera a forma di asino con le ali, che si trasformerà in una combinazione eclettica di teatro e attivismo. Project for a Utopia o Utopia Monumentale è una piattaforma aerea che ospiterà e metterà a confronto diversi punti di vista sul tema della dignità. Sarà una performance che potrà ripetersi ovunque, con l’obiettivo di esplorare il maggior numero di variazioni sul tema. Forse, avrei dovuto proporla in fase di elezioni per la propaganda politica di Obama. Certo che no! Scherzo…

Cosa vorresti dimostrare con questo lavoro? È un modo come un altro per rivelare quanto di questa parola se ne siano perse le tracce?

Sì! Pongo l’accento sulla parola dignità. Perché, credi che bisognerebbe parlare d’altro?

Lara Favaretto, Plotone, 2005-2008. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino. Foto: Jenni Carter

Lara Favaretto, Plotone, 2005-2008. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino. Photo: Jenni Carter.

Lara Favaretto, È così se mi interessa, 2006. Collezione MAXXI, Roma. Photo: Paolo Pellion di Persano

Lara Favaretto, È così se mi interessa, 2006. Collezione MAXXI, Roma. Photo: Paolo Pellion di Persano.

Lara Favaretto, Absolutely no Donation, 2009. Tramway, Glasgow. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino

Lara Favaretto, Absolutely no Donation, 2009. Tramway, Glasgow. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino.

Lara Favaretto, Momentary Monument (Wall), 2009, Trento. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino. Photo: Giulia Parri

Lara Favaretto, Momentary Monument (Wall), 2009, Trento. Courtesy: Lara Favaretto, Galleria Franco Noero, Torino. Photo: Giulia Parri.



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