28 Novembre 2018
Nel suo recente saggio, The Game, Alessandro Baricco si misura con l’esigenza di dare un ordine alla rivoluzione digitale che sta cambiando in modo vertiginoso la nostra società. Per farlo, si dice fin da subito disposto a rinunciare alla complessità: “Abbiamo troppo bisogno di una sintesi leggibile per attardarci troppo nel culto della precisione”1. Che poi Baricco voglia veramente rinunciare alla complessità non è del tutto vero, e lo stesso si potrebbe dire di Sanguine. Luc Tuymans on Baroque, l’imponente mostra curata da Tuymans alla Fondazione Prada, in programma fino al 25 febbraio, una esposizione che vede nella dualità semplice-complesso la spinta interpretativa di un mondo contemporaneo ipertrofico e iperconnesso. Anche quello di Tuymans è un tentativo di decifrare il reale attraverso la reductio ad unum, ovvero la ricerca di un minimo comune denominatore, in questo caso il Barocco, che accomuna il Seicento e l’epoca in cui viviamo. Nata in occasione del Festival del Barocco di Anversa inaugurato lo scorso giugno, la mostra di Tuymans si è spostata a Milano con un’estensione ancora maggiore: coinvolge, infatti, 63 artisti con 80 opere, di cui 25 in esclusiva per gli edifici milanesi, molte pensate per essere site specific e dialogare, per affinità e opposizioni, con la loro collocazione. Al di là dei percorsi storiografici e delle interpretazioni critiche, l’artista belga è convinto che questa particolare temperie artistica abbia anticipato nel Seicento molto di quello che siamo noi oggi: l’immagine esasperata, la tensione erotica e violenta, la torsione emotiva e morale, la propaganda fideistica, se non il populismo. Un fil rouge, insomma, che va per ricorsi e sinuosità dall’Estasi di Santa Teresa (1647-52) di Bernini alla realtà aumentata, da I bari (1594) di Caravaggio ai social media, dal colonnato di San Pietro al sovranismo.
Attivo dai primi anni Ottanta, Tuymans ha contribuito alla rivisitazione dei canoni europei della pittura, e ha poi sperimentato diverse forme artistiche, sempre alla ricerca di un significato attuale e pregnante. Non è nuovo alla piega politica, avendo affrontato temi come l’Olocausto (due dei fratelli di suo padre furono peraltro nella Gioventù hitleriana) o i crimini coloniali nel Congo belga. Nel settembre 2002, quasi per reazione agli attacchi dell’11 settembre 2001, sentì l’esigenza di ammutolire il riferimento all’attualità proponendo a documenta11 una gigantesca natura morta di cinque metri per quattro: il risultato fu più politico di tante altre proposte dichiaratamente impegnate. Anche oggi, con un passato di buttafuori e guardia giurata (pare che, diciannovenne, sia stato folgorato dalla visione di una serie di El Greco che sorvegliava a Budapest), non ha perso un certo pragmatismo, insolito per un artista della sua caratura e della sua quotazione: “Non è certo l’opera più bella di questo autore, ma è quella che siamo stati in grado di ottenere”, dirà più volte accompagnandoci durante la visita di Sanguine. Lui definisce l’età barocca come “una transizione”2: quale definizione migliore per etichettare anche il nostro presente? I motivi della sua attrazione per quest’epoca sono evidenti nella selezione delle opere, mai soggetta a dogmi. Se concordiamo più o meno tutti sul fatto che il Barocco sia stato, fra la fine del Cinquecento e il primissimo Settecento, quel periodo in cui il rigore classico è esploso in un magma di volumi, composizioni e scenografie, fondendo il realismo più esasperato all’illusionismo più sapiente e facendosi carico di un’angosciante riflessione sui motivi della vita, della passione e della morte, è anche vero che non si è giunti facilmente a un giudizio di valore concorde. Fra i primi a definirlo, il Dictionnaire de Trévoux del 1771 qualificava il gusto barocco come qualcosa in cui “le regole della proporzione non vengono rispettate, ma rappresentate secondo il capriccio dell’artista”3; ci vorrà l’Ottocento e più ancora il Postmoderno per apprezzare la rapsodia barocca in tutto il suo impeto di liberazione.
Tuymans parte da questo dato di incertezza e propone una selezione percorsa dal sottile filo dell’ambiguità, a volte dell’ironia, piegando il Barocco alle declinazioni più ardite. Perché se in mostra ci sono opere di maestri indiscussi come Rubens, van Dyck, de Zurbarán, è il loro accostamento quasi randomico a tanti artisti contemporanei che crea una vertigine inedita. Ci si ritrova dunque a definire barocchi anche gli imponenti volti di gesso tagliati in due di Mark Manders (Room with Unfired Clay Figures, 2011-15), così come la luce ingannevole di Eclipse (2009) di Pavel Büchler o l’iperrealismo africano di Cinéma Rio Lakota (2017) di Cheikh Ndiaye. Il gioco, raffinato e pericoloso, è proprio questo: ci potrebbero essere spunti tematici, indizi di modernità e al contempo di storicità, in tutte le espressioni artistiche degli ultimi decenni. All’inizio della mostra, per esempio, ci si imbatte subito in un grande vaso di fiori candidi e freschi, il Bouquet IX (2012) dell’olandese Willem de Rooij, che racchiude in sé molte tracce: l’illusione, il decadimento, la teatralità. L’attenzione al dettaglio, all’anatomia e alla natura, rappresentata al massimo della maturità, un attimo prima di sfiorire, è un must secentesco, derivante dalla rivoluzione scientifica e dalla demistificazione della morte (“Morte, non essere orgogliosa, perché ti han chiamato potente e terribile, (…) sei solo schiava del fato, del caso, di re e uomini disperati”4, scriveva in quegli anni John Donne).
D’altronde, vita e morte sono legate da fili sottilissimi: i cavalli impagliati di Berlinde De Bruyckere (In Flanders Fields, 2000), metafora anche degli orrori della Prima guerra mondiale, o il ritratto dolente della Dead Girl (2002) di Marlene Dumas, sono esempi di una violenza neanche troppo sublimata, piuttosto esplicita (a proposito, va riconosciuto a Tuymans il merito di aver dato spazio a una ricca rappresentanza femminile). La violenza è sovrana anche in Five Car Stud (1969-72) di Edward Kienholz, che mette in scena l’efferata evirazione di un uomo nero da parte di un branco di bianchi (l’opera, vista da Tuymans proprio alla Fondazione Prada, nel 2016, viene riproposta in mostra attraverso un filmato di Alex Salinas). Un altro apice in questo senso è Fucking Hell (2008) di Jake e Dinos Chapman, una specie di diorama dell’atrocità umana in cui migliaia di minuscole statuette di plastica raffigurano nazisti, vittime, maiali. Un teatro apocalittico, cupo, brulicante di orrori e prodigioso nella sua accuratezza, quasi una forma estrema di modellismo: chiari contrasti barocchi che continuano ad alimentare la doppia anima di Sanguine. Doppia si fa per dire, perché in realtà questa mostra ha molteplici volti, tutti riassunti nelle rifrazioni di Circa Tabac (2007) di Carla Arocha e Stéphane Schraenen, nei cui specchi scomposti si riflettono i frammenti delle opere circostanti con un grande effetto scenografico.
Sono numerosi i contributi che lavorano sulla soglia semicosciente degli opposti: libertà e oppressione, purezza e scabrosità, gigantismo e minuzia, ma soprattutto finzione e verità. Ci si mette un po’ a capire che la bambina che si aggira in un ristorante abbandonato di Fukushima nel video Untitled (Human Mask) di Pierre Huyghe, del 2014, è in realtà una scimmietta con tanto di maschera e parrucca. O che Nosferatu (The Undead) di Javier Téllez, del 2018, interpola il classico film dell’orrore del 1922 con interviste e contributi moderni per riflettere sulla malattia mentale come connotato orrorifico dei nostri tempi. O ancora, che le statue riassemblate di Nadia Naveau, brillante trait-d’union fra rococò e Disney, parlano di un sincretismo tra passato e presente. Questo gioco delle percezioni deviate e delle aspettative disattese è forse la mossa più riuscita del processo espositivo di Tuymans. Eppure, siamo spinti a pensare che i veri poli attrattivi dell’intera mostra siano i due Caravaggio che il curatore ha orgogliosamente ottenuto: il Fanciullo morso da un ramarro (1596-97) e il Davide con la testa di Golia (1609-10), sparsi quasi casualmente nel percorso, sono magnetici nel suggerire tutto ciò che c’è da dire sul Barocco di ieri e di oggi. E osservando gli altri capolavori dell’epoca esposti viene il dubbio che la vera narrazione contemporanea stia lì: Le figlie di Cecrope di Jacob Jordaens (1617) sono un manifesto contro il fat shaming; la Cleopatra morente (1660-62) di Guido Cagnacci è pronta, dalla seconda metà del Seicento, per finire in un meme; il Facchino, abiti da umile lavoratore e posa da distinto aristocratico, è l’immagine che Adriaen Brouwer avrebbe postato se Instagram e la sua finzione nobilitante fossero esistiti qualche secolo fa. Ma soprattutto Caravaggio, appunto: la resistenza all’opinione pubblica uniformante, la ribellione a un potere che semplifica, l’espressione di una marginalità che fissa quello che sarà il canone dei posteri. Caravaggio è come il punk, come la Vaporwave, è sovversivo come il fact checking.
Già nel 1987, nel suo saggio L’età neobarocca, il semiologo Omar Calabrese cercava proprio nel secolo di Bernini, Borromini e Guarini di trovare un senso a un decennio, i favolosi anni Ottanta, che metteva insieme Roland Barthes e Tinto Brass, la tragedia dell’Heysel e il Drive In, l’estetica pop di Michael Jackson e il successo dei Bronzi di Riace, il labirinto di Eco e il rizoma di Deleuze. Un’epoca, cioè, in cui si assiste secondo lui “alla perdita dell’interezza, della globalità, della sistematicità ordinata in cambio dell’instabilità, della polidimensionalità, della mutevolezza”5. Un po’ quello che succede nel nostro presente in cui domina, per tornare a usare le parole di Baricco da cui siamo partiti, “la sensazione di esserci sporti al di là del mondo conosciuto, e di aver iniziato a colonizzare zone di noi stessi che non avevamo mai esplorato e in parte neanche ancora generato”6. La mostra Sanguine sembra ribadire lo stesso timore di disorientamento e ricorre dunque alla medesima, ben nota categoria del passato. Tuymans individua cioè nella propaganda barocca, nelle sue immagini estatiche e bombastiche, nel suo temperamento violento, vitale e virale, tutti i prodromi di ciò che accade oggi: “il populismo, la ricerca della reazione facile ed emotiva del pubblico”7, le fake news e così via. Il Barocco è insomma pretesto e rifugio: ogni volta che il mondo perde i suoi confini lineari, la sua riconoscibilità immediata, ogni volta che cambia le regole del gioco, l’unico simbolo adatto a raffigurarlo sembra essere la perla scaramazza. Il Barocco può essere tutto e niente, è preciso ma anche vago, fa paura e rassicura, un po’ come la nostra età contemporanea.
Sanguine. Luc Tuymans on Baroque
A cura di Luc Tuymans
Fondazione Prada, Milano
18 ottobre 2018 – 25 febbraio 2019
Note
1 Alessandro Baricco, The Game, Einaudi, Torino, 2018, p. 47.
2 “Luc Tuymans: Il barocco? Siamo noi”, intervista di Dario Pappalardo, la Repubblica, 19 ottobre 2018.
3 Jésuites et imprimeurs de Trévoux, Dictionnaire universel françois et latin, 6e édition, 1771, Tome 1, “Baroque”, p. 770.
4 John Donne, Selected Writings, Oxford University Press, Oxford, 2018, p. 157: “Death, be not proud, though some have called thee / Mighty and dreadful, (…) Thou art slave to fate, chance, kings, and desperate men”.
5 Omar Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. VI.
6 Alessandro Baricco, ibidem, p. 14.
7 “Luc Tuymans: Il barocco? Siamo noi”, intervista di Dario Pappalardo, ibidem.