29 Dicembre 2018
L’arte lavora sempre in anticipo sui tempi, ed è così che dopo un secolo Egon Schiele (1890-1918) risulta essere un nostro perfetto contemporaneo. Basta visitare la mostra monografica parigina alla Fondation Louis Vuitton, curata da Suzanne Pagé, Dieter Buchhart e Olivier Michelon (più di un centinaio di dipinti e disegni, gran parte dei quali di proprietà privata, esposti fino al 14 gennaio 2019), per rendersi conto del prodigio di preveggenza che Schiele esprime in termini di rappresentazione della modernità nei suoi caratteri peculiari, e cioè la solitudine dell’individuo, il disperato narcisismo, la pulsione sessuale tra libido e istinto di morte, l’isolamento dell’artista che arriva alla sua negazione e alla negazione dell’arte. Tutti temi che attraversano la cultura della crisi nella Vienna fin de siècle, la Vienna di Schönberg, di Wittgenstein, di Adolf Loos, teatro cosmopolitico dell’Experiment Weltuntergang, un magnifico laboratorio dove, parlando dodici lingue, si sperimentava la fine del mondo e l’avvento della decadenza sotto l’egida dell’Imperial-Regia, una monarchia ormai al suo acme, esangue, dove ogni artista, prigioniero dentro la sua cella, poteva urlare al mondo la sua pazzia come gli pareva.
Eppure, niente sembrava predestinare quel ragazzo gracile e minuto, figlio di un capostazione di Tulln an der Donau, cittadina alla periferia di Vienna, rimasto orfano a soli quattordici anni del padre morto nel 1904 di sifilide dopo lenta degenerazione mentale. È vero che iniziò a disegnare sin dalla più tenera età. Aveva appena diciotto mesi quando prese in mano una matita e non la mollò più. Era un genio precoce, fortemente innovatore, e avrebbe consumato la sua vita in un lampo, morendo a soli 28 anni di febbre spagnola, dopo aver anticipato la crisi del moderno, le ferite della Grande Guerra, e molte delle lacerazioni del XX secolo. Sin dall’inizio bruciò le tappe, facendo esasperare il suo professore di disegno all’Accademia di Belle Arti, Christian Griepenkerl, che rassicurava la madre: “Suo figlio è fin troppo dotato, perturba tutta la classe”1. Era un bambino taciturno e ardente, e sin da piccolo mostrò una vocazione sicura, trascurando di fare i compiti per disegnare tutto il tempo, sino a far impazzire il padre, che un bel giorno, tormentato dalla miriade di fogli sparsi per tutta la casa, saltò su tutte le furie e ne fece un falò. Schiele ne fu traumatizzato a vita, e rivisse il trauma da adulto, nel 1912, quando condannato per oltraggio al pudore passò tre settimane in carcere e dovette assistere al secondo rogo dei suoi disegni, ordinato da un magistrato inflessibile.
All’inizio, per dare corso ai suoi tormenti e alle sue inquietudini, Schiele scelse il disegno e una linea capace di “ancorare il contenuto alla forma”, come ha scritto Werner Hofmann2. Dalla linea ornamentale della Secessione, vicina allo Jugendstil, passò poi a quella espressionista degli anni Dieci, in reazione alle composizioni mitologiche e ai temi mondani di Gustav Klimt, sfornando ritratti e i autoritratti dalle linee distorte e squilibrate, dove i contorni con poco colore mettono le figure in tensione col vuoto dello sfondo. Sperimentò tecniche nuove come l’umido sull’umido, lasciando che fosse l’acqua a produrre le forme, come testimoniano alcuni acquarelli strepitosi in mostra a Parigi (Nudo maschile seduto visto di spalle, 1910, o Moa, 1911). E si lanciò alla ricerca di un rinnovato equilibrio, inseguendo una fluidità più conturbante, attenta alla psiche dei suoi soggetti, aperta al teatro delle marionette, al mondo del mimo. Così, nell’arco di dieci anni Schiele riuscì ad offrire una gamma di soluzioni straordinarie, di cui l’esposizione parigina offre una sintesi perfetta. Era votato alla “conoscenza attraverso la carne” e “alla deformazione del corpo in quanto tale, in assenza di spazio”, secondo Werner Hofmann3, come se fosse “un paesaggio con rovine”, aggiunge Dieter Buchhart4. Si serviva della linea come di uno scalpello per incidere se stesso e diffondere le sue scoperte, spiega Alessandra Comini5, coltivando un esibizionismo estremo, senza finte cautele, per offrire immagini forti, sconvolgenti, impudiche di se stesso e degli altri.
Dopo aver lasciato l’Accademia, Schiele entra subito nel mondo dell’arte, irrompendo nel giardino di Josefstadt, dove c’è l’atelier del suo maestro Gustav Klimt, che sembra affascinato da quell’allievo dall’aria emaciata e ribelle. A 19 anni, consapevole di sé e del proprio talento, Schiele ha bisogno di pochi mezzi per creare: gli basta una vecchia specchiera ereditata dalla madre, carta da disegno, matite, pastelli grassi per iniziare a disegnare in modo nuovo e provocatorio, rinunciando al rilievo e alle ombre tridimensionali e inseguendo la linea in sé, indifferente al senso di vergogna, al pudore, alla pietà, sino a mettere in scena le ossessioni lancinanti, le emozioni proibite, la tempesta delle pulsioni più impellenti. Eccolo allora di fronte allo specchio che si ritrae mentre si masturba, con uno smisurato fallo tra le mani (Eros, 1911). Fine del bello ideale, della “microgenitomorfia” degli antichi teorizzata da Policleto: il sesso è dipinto de visu, nella sua realtà bruta, esaltato e rappresentato secondo natura. Siamo nel 1910, epoca in cui l’onanismo è considerato una malattia, causa di demenza, e a Freud, che lo considera una “dipendenza primaria”, ripugna evocarlo a proposito del figlio adolescente, che fa curare da un collega. Schiele, che Freud non ha mai incontrato e di cui ignora le opere, sarà l’artista che meglio illustrerà la riforma delle coscienze e delle forme in corso nella cultura viennese, una riforma che è al tempo stesso “affermazione di sé e distruzione, postulato di una modernità e critica della modernità stessa”, come ricorda Jean Clair nel suo bel saggio6. L’uomo moderno non è padrone in casa propria, non controlla se stesso? È in balia di un’energia misteriosa, dell’Eros, della libido, dell’istinto di morte che spinge alla ripetizione compulsiva per trovare piacere e patimento? Ecco che Schiele raffigura il dramma dell’io moderno nel suo doppio autoritratto a matita su carta, dove un io dall’aspetto tranquillo è in compagnia di un altro io, che invece ha gli occhi spiritati, la fronte increspata dalle rughe, in testa un cespuglio di capelli, le mani tese con lunghe dita aperte, mentre l’altro lo tiene fermo da dietro le spalle, e lo guarda dall’alto in basso (Doppio autoritratto, 1910). In un altro autoritratto, Schiele si dipinge con una massa informe di capelli, come se fossero scossi da una scarica elettrica, e con la fronte alta solcata dalle rughe, le sopracciglia arricciate, gli occhi assenti, lo sguardo rivolto di dentro, verso un buco nero insondabile, e le labbra socchiuse (Autoritratto, testa, 1910).
Lo stesso anno, Schiele ritorna al doppio autoritratto con il Selbstseher, lo spettatore di se stesso, mettendo in mostra il demone oscuro che di spalle lo spinge a compiere atti osceni, unico responsabile delle sue perversioni (Self-Seer, 1910). Esprime così la sua rabbia mal sopita, l’ansia e l’inquietudine votata all’introspezione. È come se ritraendo se stesso volesse ritrovare i traumi infantili, le pulsioni dell’anima: “Gli adulti hanno dimenticato com’erano da piccoli? Com’erano spinti e sollevati dall’impulso sessuale? Hanno dimenticato quale terribile passione bruciava dentro di loro e li torturava quando erano bambini? Io no, non l’ho dimenticato, perché ne ho terribilmente sofferto”, scrive Schiele7. E in questa sua ricerca, coinvolge anche Gerti, la sorella di quattro anni più piccola, che posa nuda per lui e si dispone a lunghe sedute anatomiche clandestine, nelle quali vengono coinvolti anche altri ragazzini presi dalla strada, oltreché modelle disposte per mestiere alle pose più provocanti. A poco a poco, la linea ornamentale, la linea di Klimt, maestro della fluidità Jugendstil, inizia a spezzarsi in una linea contratta, angolosa, espressionista. Nel 1912 Schiele parte per Krumau, la cittadina medievale in Boemia a meno di duecento chilometri da Praga, dove è nata la madre e dove vive con la modella Wally Neuzil. Poco dopo, i due si trasferiscono a Neulengbach, a cinquanta chilometri da Vienna, in una casetta con giardino dove Wally fa da padrona di casa e Schiele dipinge i loro ritratti e Gli eremiti (1912), un grande quadro con due personaggi, in cui egli stesso si ritrae accanto a Klimt. Il successo gli arride. Schiele espone a Vienna, a Monaco, a Colonia, a Budapest, ma la fortuna gli volta le spalle il giorno in cui viene accusato di oltraggio al pudore: arrestato, subisce la confisca di un centinaio di disegni erotici, e dopo tre settimane di carcere e un processo lampo, viene rimesso libertà. In prigione Schiele scrive un diario, riflette sull’arte, “Kunst kann nicht modern sein. Kunst ist urewig” (“L’arte non può essere moderna, torna eternamente all’origine”)8, tenta di dipingere sui muri con la saliva, prima di ottenere colori e pennelli con cui realizza tredici acquarelli, fra i quali una veduta della cella angusta, la sua sedia, i vestiti, infondendo la sua vita negli oggetti inanimati, e quattro autoritratti favolosi, dove si ritrae in posizione verticale, come se fosse appeso al vuoto. “Ostacolare l’artista è un delitto, significa uccidere la vita nella culla”, scrive a caratteri cubitali accanto al primo. Riverso sul pagliericcio, stretto nel suo cappotto rosso dagli enormi bottoni, senza mostrare né i piedi, né le mani, il prigioniero lancia uno sguardo implorante dal fondo degli occhi dilatati, per dire l’oltraggio, l’indignazione, l’umiliazione (Io amo le antitesi, 1912). In un altro ritratto ricompaiono le mani, contratte come se volessero afferrare il vuoto, aggrappate al cappotto sino a raggrinzire la stoffa (Sarò lieto di sopportare per l’arte e per quelli che amo, 1912). Sono il simbolo del ritorno alla vita.
L’artista torna in libertà e inizia una serie di disegni ascetici da solo, o accanto a Wally, la sua musa, che stringe in un abbraccio consolatorio. Ma intanto un altro io si agita e si tormenta, aggrottando le sopracciglia, coi capelli scarmigliati, le guance sanguigne, le mani tese in un gesto di difesa, mentre il corpo diffonde uno strano alone rossastro. Alla fine del 1913, inventa un nuovo logo, racchiudendo in un rettangolo la sua firma a stampatello su due righe: è come se dopo la lunga esplorazione del suo vuoto esistenziale volesse barricarsi in se stesso, osserva Alessandra Comini, e tentare un rapporto meno conflittuale col mondo. Ecco allora che in occasione della mostra a Vienna nel dicembre 1914, Schiele si raffigura come un moderno martire, perseguitato e torturato come San Sebastiano (Autoritratto in camicia verde con gli occhi chiusi, 1914). La linea espressionista astratta, angolosa, spezzata tocca il culmine. Schiele segue le leggi dell’anatomia fino al grottesco, tratta i volti dei modelli come teste di manichini, ma la sua geometria si fonda sempre sulla struttura organica. Quando cerca di uscire dalla disperazione e dal risentimento, Klimt gli viene in suo soccorso convincendo l’industriale ungherese August Lederer ad affidare a Schiele il ritratto dei figli. Ormai non conta solo la precisione del contorno, la definizione della linea, conta soprattutto il riflesso della vita interiore. I suoi quadri si vendono bene. Nel 1913 ha cambiato casa, vive in un attico al 101 di Hietzinger Hauptstrasse, e ha l’atelier al piano terra. Di fronte abitano le sorelle Harms, Adéle e Edith, 23 e 21 anni, figlie di un tedesco che lavora per le ferrovie austriache. Schiele inizia a corteggiare Edith, alla vigilia della Prima guerra mondiale. Nel febbraio 1915 viene mobilitato, ma ottiene un rinvio per motivi di salute. Richiamato alle armi in maggio, parte per Praga il 21 giugno 1915, quattro giorni dopo aver sposato Edith, non senza aver rinunciato a Wally, che però indignata lo lascia, partendo come infermiera volontaria in un ospedale militare. Tre anni dopo, il 28 ottobre 1918, poco prima dell’armistizio, Edith muore di febbre spagnola, e Schiele, già ammalato, ritrae due amanti distesi sul letto stretti in un tenero abbraccio (Amanti, 1918, incompiuto). Tre giorni dopo, il 31 ottobre 1918, muore anche lui.
Egon Schiele
A cura di Suzanne Pagé, Dieter Buchhart e Olivier Michelon
Fondation Louis Vuitton, Parigi
3 ottobre 2018 – 14 gennaio 2019
Note
1 Anton Peschka jr, Die Wahrheit über Egon Schiele, manoscritto inedito, p. 45, testo citato da Jane Kallir in “Egon Schiele en quête de la ligne parfaite”, dal catalogo Egon Schiele, Fondation Louis Vuitton, Éditions Gallimard, Paris, 2018, p. 28.
2 Werner Hofmann, “Egon Schiele”, dal catalogo Experiment Weltuntergang. Wien um 1900, Hamburger Kunsthalle, Prestel, München, 1981, p. 150-151, testo citato da Dieter Buchhart in “Schiele et la ligne existentielle”, dal catalogo Egon Schiele, Fondation Louis Vuitton, Éditions Gallimard, Paris, 2018, p. 14.
3 Werner Hofmann, “Das Fleisch erkennen”, in Alfred Pfabigan (dir.), Ornament und Askese. Im Zeitgeist des Wien der Jahrhundertwende, Christian Brandstätter, Vienne, 1985, p. 123, testo citato da Dieter Buchhart, in “Schiele et la ligne existentielle”, ibidem, p. 25.
4 Dieter Buchhart, in “Schiele et la ligne existentielle”, ibidem, p. 25 e 26.
5 Alessandra Comini, “Dessin: la ligne de vie d’Egon Schiele”, Egon Schiele, Fondation Louis Vuitton, Éditions Gallimard, Paris, 2018, p. 42.
6 Jean Clair, “Modernité d’Egon Schiele”, Egon Schiele, Fondation Louis Vuitton, Éditions Gallimard, Paris, 2018, p. 37.
7 Egon Schiele in Arthur Roessler (dir.), Egon Schiele im Gefängnis, Konegen, Vienna, 1922, p. 33, testo citato da Alessandra Comini in “Dessin: la ligne de vie d’Egon Schiele”, Egon Schiele, Fondation Louis Vuitton, Éditions Gallimard, Paris, 2018, p. 42.
8 Egon Schiele, citato da Jean Clair in “Modernité d’Egon Schiele”, Egon Schiele, Fondation Louis Vuitton, Éditions Gallimard, Paris, 2018, p. 36.