Enzo Mari
“Sono comunista”

7 Febbraio 2014

Per intervistare Enzo Mari, maestro indiscusso del design contemporaneo, vanno tenute a mente almeno due cose. La prima è che non basta un’ora di chiacchierata. Mari s’infervora, racconta, divaga: di ore ce ne vorrebbero due, tre, ma forse nemmeno una settimana sarebbe sufficiente. La seconda è che le domande le fa lui. E a queste dà risposte corpose, che offrono lo spunto per qualche timida domanda anche da parte dell’intervistatore. Nato vicino a Novara nel 1932, Mari è mente e mano di tanti progetti e oggetti semplicemente geniali: Il gioco delle favole per Corraini e quello dei 16 animali per Danese, il divano Day-Night e la sedia Delfina per Driade, la Tonietta per Zanotta, il sistema di illuminazione Aggregato per Artemide, lo spremiagrumi Titanic per Alessi. Solo per citarne alcuni. Ma oltre alle opere, ci sono i pensieri: Mari è la coscienza del design, come disse di lui Alessandro Mendini. Progettista, critico e teorico, ha vinto quattro volte il Compasso d’Oro (compreso uno alla carriera nel 2011), è stato inserito nel ristretto novero dei Royal Designers for Industry dalla Royal Society of Arts di Londra, e ha ricevuto una laurea honoris causa in Disegno industriale dal Politecnico di Milano. Ha insegnato in diverse scuole di design e architettura, partecipato a esposizioni in tutto il mondo, dal Louvre al MoMA, e ha scritto diversi libri. L’ultimo, pubblicato nel 2011 da Mondadori, è l’autobiografico 25 modi per piantare un chiodo, a cura di Barbara Casavecchia. Da qualche mese ha chiuso il suo studio a Milano e “non ha nessuna intenzione di pensare a nuovi progetti”.

Sedici animali, design di Enzo Mari per Danese

16 animali, design di Enzo Mari per Danese Milano, 1957.

Possiamo partire. Credo che per fare un’intervista come si deve, dovrei vivere qui, a casa sua, per almeno una settimana.

E invece proveremo a sciogliere qualche nodo nel tempo che abbiamo a disposizione. Vuole che le riveli subito un segreto? Mi rendo conto che è una dichiarazione suicida, ma la faccio lo stesso: sono comunista.

Addirittura? Non è troppo partire così?

Intendiamoci, non sono mai stato iscritto al partito. Anche perché quando esponevo le mie idee e cercavo di contattare qualcuno, mi rispondevano immancabilmente: sei un bravo ragazzo, ma di queste cose si parlerà fra quarantamila anni. Tutta la cultura comunista era basata su due parole: struttura e sovrastruttura. Erano i cardini dell’opera di Marx, possesso e fabbrica. Ovvero, il possesso del potere: Lenin prima e Stalin poi.

Esiste ancora il comunismo?

No. Gli attuali esponenti del PD sono di un’ignoranza totale. Poi c’è Matteo Renzi, neo-segretario, che non si capisce dove voglia andare a parare. E infine Berlusconi, che è bravissimo, ma ha un cervello cui manca totalmente il comparto etico. Il fatto che il comunismo non esista più, non è solo un problema per Berlusconi, ma anche per il PD, un partito in cui ognuno rincorre un’illusione diversa.

La domanda nasce spontanea, data anche la sua definizione del design come “utopia democratica”. Il design è politica, deve occuparsi della cosa pubblica?

È una bella domanda, cui siamo tutti bravi a rispondere di sì. Per quanto mi riguarda, sin dal primissimo dopoguerra e poi negli anni Cinquanta, quando già si sentivano le prime voci inquietanti sulla Russia, ho avuto sempre ben chiara una cosa: Marx non ha mai pensato che la rivoluzione dovesse scoppiare in Russia. Pensava alla Francia, alla Germania o agli Stati Uniti. Perché la rivoluzione doveva avvenire dove si produce il capitale, ovvero la ricchezza.

Quindi anche nella Cina di oggi?

Della Cina non riesco a farmi un’idea precisa, anche se vent’anni fa avevo una gran voglia di andarci. Detto questo, il mio dubbio è se esista davvero un partito comunista che dirige il Paese.

Timor, design di Enzo Mari per Danese

Timor, design di Enzo Mari per Danese Milano, 1967.

Sì, ma in Cina oggi mancano due fattori fondamentali: ordine e libertà.

Vede, nel 1989, al tempo delle sommosse di piazza Tienanmen e della strage degli studenti, io ho fatto questa riflessione con i pochi dati che avevo a disposizione: da un certo punto di vista, nel momento in cui la Cina stava entrando nel dominio del capitale, ho pensato che fosse una reazione legittima. Cosa vuol dire permettere a dei giovani di dire la loro? È come durante il Salone del Mobile, quando tutti sbracano con le loro cosucce. In casi del genere, la libertà andrebbe abolita.

Lei ci lavorerebbe con i cinesi?

Non mi faccio problemi di questo tipo: le ragioni del progetto dovrebbero prevalere in qualsiasi condizione, che sia in Italia, in Cina o in Ghana.

Lei appare burbero e qualcuno la chiama addirittura il Savonarola del design. Ma dallo sguardo sembra piuttosto un ottimista. Progetti futuri?

Sono stato profondamente ottimista, ma adesso vivo una situazione di crisi profonda. Ho chiuso il mio studio in piazzale Baracca, a Milano, e al momento non ho nessuna intenzione di pensare a nuovi progetti. Ho dedicato sessant’anni della mia vita a riflettere e progettare e ora sono pieno di acciacchi. Eppure, anche se arrivasse il mago Merlino e me li facesse passare tutti, il mio unico desiderio sarebbe quello di andarmene.

Qual è il vero segreto che custodisce, e che nessuno ha ancora compreso?

Che il design italiano non lo hanno inventato i designer di Milano, ma gli artigiani meridionali che poi hanno perso il lavoro a causa dell’inurbamento e della diffusione della tecnologia. Gli artigiani producevano gli oggetti essenziali per i contadini. Per esempio, da una lastra piana ricavavano un secchio. Il problema è che quel secchio non si chiamava design, ma era frutto di un lavoro artigianale.

C’è un bisogno a cui ancora nessuno ha risposto? 

Tantissimi. Cominciamo col dire che ho visto nascere il design: a Milano ero il più giovane, e i più vecchi di me – Marco Zanuso, Ettore Sottsass, Achille Castiglioni, Franco Albini – dicevano che ero un giovane promettente. Sono stato bravo, ma ho fallito la mia utopia. Salvo scoprire, a quarant’anni, che a diciotto e vent’anni ero un piccolo genio. Però ce l’ho messa tutta.

Tonietta, design di Enzo Mari per Zanotta

Tonietta, design di Enzo Mari per Zanotta, 1985.

Cosa si sente di dire oggi ai giovani?

Nella mia famiglia erano tutti poverissimi, io non ho frequentato nessuna scuola. Ai giovani bisognerebbe spiegare innanzitutto cos’è l’industria, e ricordare che il design non è un’industria, ma un’attività da piccoli imprenditori. Industria e design andarono d’accordo solo con Adriano Olivetti, che è un’eccezione non solo italiana. Quanto agli altri, anche quelli che hanno inventato la Vespa, per esempio, non erano designer, bensì piccoli imprenditori che costruirono un oggetto utile in un momento in cui tutti andavano a piedi.

Cosa inventerebbe oggi?

Mi permetta un’affermazione di fondo. L’industria nasce a metà del Settecento quando in Francia vivevano 28 milioni di persone, che, eliminati i ricchi, erano 27 milioni di poveracci. Quando viene pronunciata per la prima volta la parola égalité, la gente si mette a piangere di felicità e stupore. Ma dopo l’entusiasmo iniziale ecco che cominciano ad avere bisogno di scarpe, mutande e tutto il resto. È qui che si capisce cosa vuole dire veramente uguaglianza, ed è lì, in quel momento, che nasce la produzione industriale. L’oggetto artigianale, che veniva confezionato a Versailles, era semplicemente troppo costoso.

Qual è il vero meccanismo dell’industria? 

L’industria prevede che l’operaio costi poco, e che il prezzo di un prodotto sia stabilito con precisione. Ammettiamo che per fabbricare un oggetto ci vogliano due euro. Per fissare il prezzo, il padrone dell’industria decide di moltiplicarli. Nel caso del design, il moltiplicatore è di cinque o sei volte, così due euro diventano dodici. Per il design di lusso, che è l’unica fascia di mercato che ancora funziona, si può arrivare a un moltiplicatore di otto o dodici volte.

Cosa deve fare il designer, dunque?

I designer dovrebbero conoscere il meccanismo dell’industria, per cui un operaio deve costare il meno possibile. Tutto nasce quando si crea la prima catena di montaggio. Lì è proibito pensare. I lavoratori si mettono a piangere perché non sono più in grado di pensare, non riescono più a usare il proprio cervello. Se fossi ministro chiuderei le scuole tecniche per gli operai e direi a tutti che bisogna fare da sé. Qualche piccola industria capirebbe, ma non gli operai e i sindacati.

Niente operai. 

Se fossi in salute e avessi la determinazione di un tempo, proverei a dire che vanno eliminati gli operai. Non perché li manderei in galera, ma perché va eliminata la figura di uno che prende lo stipendio, che è peggiore dello schiavo dell’antica Roma. Quando dico eliminiamo gli operai, non dico inventiamo dei robot. L’operaio dovrebbe guadagnare la sua vita in modo diverso, dovrebbe guadagnare una percentuale, anche piccola, sugli incassi della sua industria. Non incasserebbe più lo stipendio, ma dopo quindici anni diventerebbe socio dell’impresa. Gli ultimi a capire un discorso del genere sarebbero proprio gli operai, che continuano a credere che lo stipendio sia la soluzione di tutti i problemi.

Titanic, design di Enzo Mari per Alessi

Titanic, design di Enzo Mari per Alessi, 2000.

Ma quali sono le difficoltà dell’industria oggi?

Noi, intendo gli Usa, l’Europa, il Giappone e qualche altro piccolo Paese, viviamo nella parte agiata del mondo. È l’Occidente che ha inventato la cultura moderna, la conoscenza, la produzione, i motori, il capitale e lo sfruttamento del capitale. E ha prodotto il benessere. Un benessere che dipende da cinque secoli di rapina del pianeta. Senza capitale, non esistono scuole, ospedali e molte altre cose importanti. L’Occidente si sviluppa attorno a questa ambivalenza: rapina e benessere della popolazione.

E l’altra parte del mondo?

Tenga presente che un paese del Terzo mondo, nell’arco di una generazione acquisisce tutta la capacità economica dell’Occidente, e questo peggiorerà sempre di più le cose. La crisi vera ci sarà quando si inizierà a sparare nelle strade, perché il Quarto mondo acquisirà le nostre capacità tecnologiche. La Cina, anche se oggi preferisce utilizzare la speculazione edilizia, cioè il capitale, nel giro di un anno sarebbe in grado di produrre tutti i manufatti dell’Occidente, se solo volesse.

Non vede via d’uscita, mi pare.

In Italia si potrebbe reagire con delle riforme, con delle leggi, ma è troppo difficile: come si fanno delle leggi con Grillo? Fare le leggi vuol dire cambiare radicalmente le cose, ma la gente comune non capirebbe e ricascherebbe nelle braccia di chi dice “Non tassiamo la prima casa”.

Passiamo alla voce design.

Il design non è un’industria. Quelli che insegnano design nelle scuole, li caccerei via tutti, perché trasmettono interpretazioni, teorie e punti di vista. È necessario comprendere le cose in modo concreto, basandosi sull’esperienza. Se vado in un campo di pomodori non mi baso su una interpretazione: so che sono pomodori. Se non lo so, ne assaggio uno e capisco. Le persone sanno cos’è un pomodoro, ma non sanno cos’è il design. Vuole che le dica come si forma la mentalità di sessanta milioni di italiani, o se preferisce di sette miliardi e mezzo di esseri umani?

Prego.

Quando uno è giovane e deve ancora andare all’università, comincia a sognare un certo tipo di attività. Spesso si lascia condizionare dagli amici e dalla ragazza che gli piace. Inizia a sognare vagamente un’identità. In casi eccezionali ha una famiglia importante alle spalle, o la fortuna di poter parlare con qualche vecchio che la sa lunga. Per il resto, osserva i coetanei e si concentra su quelli che gli danno l’impressione di avere un po’ di carica in più. Li usa come riferimento, per farsi un’opinione. Il problema è che su queste basi opera poi una scelta definitiva.

Mariolina, design di Enzo Mari per Magis

Mariolina, design di Enzo Mari per Magis, 2002.

Segue un modello.

In campagna i cavalli e gli asini vanno in giro con le pezze di cuoio di fianco agli occhi per andare sempre dritti e non essere distratti. Ma quest’atteggiamento uccide il cervello, nonostante il cervello sia potentissimo e abbia l’unico difetto di invecchiare con il tempo. Quando un bambino nasce ha miliardi di neuroni collegati gli uni agli altri, e infatti i bambini sono molto intelligenti, io lo ripeto spesso: bisognerebbe dare il Premio Nobel a un bambino di due anni.

Come si fa a togliere i paraocchi?

Bisogna fare delle scelte. Ci sono decine di milioni di italiani che evitano di scegliere. Dobbiamo pensare alla qualità della vita. La qualità della vita è la scoperta, è provare a fare una cosa, scoprirne un’altra. Ho dedicato tutta la mia vita a togliere i paraocchi, ma ho miseramente fallito.

Cosa resta da fare?

Oggi c’è bisogno di raccontare come funziona l’industria, perché l’industria ha bisogno di ignoranti che non perdano tempo a pensare. Quanto al design, è un’esigenza di chi vuole circondarsi di cose che sembrano belle, ma spesso non lo sono. A me viene da dire basta: vivete, porca miseria! Chiudete le scuole di design e ritrovate il contatto con la realtà. In fondo, è solo questione di vita vera.

A proposito di vita vera, perché nel design ci sono così poche donne?

Innanzitutto, c’è il peso della storia. In passato, le donne avevano un’identità solo nelle famiglie ricche. Nelle famiglie povere, la donna era solamente un altro operaio che faceva un’infinità di lavori, e poi faceva anche tutto il resto. La donna è una designer benedetta da Dio. Perché progetta, realizza e, infine, costruisce altri essere umani. Il maschio è più robusto, e questo ha una sua importanza. Ma la donna ha come preoccupazione profonda la propria fabbrica di essere umani, ed è una caratteristica profondissima, anche nelle donne di 40, 50, 60 anni. Sa una volta qual era il compagno ideale di vita per una donna?

Quale?

L’uomo grasso, perché voleva dire che mangiava abbastanza e aveva soldi. Le donne dicevano: “Preferisco uno che abbia i soldi e che possa mantenere me e i miei bambini”.

Cosa pensa delle donne di oggi?

Se guardo alle donne, soprattutto alle donne giovani, ho più fiducia. Hanno più determinazione, più voglia di cambiare, perché stanno occupando nuovi spazi vitali. Mentre gli uomini sono andati in tilt, non hanno più punti di riferimento. Hanno perso la loro passione e la loro follia.

Qual è il suo rapporto con Lea Vergine, compagna di vita, famosa critica d’arte, insieme alla quale negli anni Sessanta venne accusato di concubinaggio? 

È da cinquant’anni che litighiamo. Ho avuto una prima moglie, ho avuto delle fidanzate. Ho conosciuto Lea per caso, a Napoli, dopo che aveva chiesto a Giulio Carlo Argan di consigliarle qualcuno che potesse curare la grafica di una rivista. Quindi vado a Napoli, in un albergo, entro verso mezzogiorno, nella grande hall non vedo nessuno. In fondo alla sala vedo un uomo e lei, che allora aveva 26 anni. Ero fermo in piedi come un cretino. Lea era una bella ragazza, ma io ero troppo timido e pensavo in termini vagamente mitologici alle belle ragazze. Per me erano una specie di regalo della divinità che ti arrivava dal cielo. Se Dio pensava che tu te lo meritassi, ti donava questa occasione di incontrare la donna della tua vita.

L’amore è un progetto?

No, è molto più semplice. Stare in piedi come un cretino, così, in fondo alla sala, con lei lì che mi guarda, fare due o tre passi verso di lei. E lei che fa due o tre passi verso di me. Forse l’amore è fare due o tre passi nella stessa direzione.

Enzo Mari per Artek

Enzo Mari, 2012. Sedia 1 Chair, design di Enzo Mari per Artek, 1974.

Formosa, design di Enzo Mari per Danese Milano, 1963.

Formosa, design di Enzo Mari per Danese Milano, 1963.

Sei Simboli Sinsemantici: Undici, Cubo, design di Enzo Mari per Danese Milano, 1972.

Sei Simboli Sinsemantici: Undici, Cubo, design di Enzo Mari per Danese Milano, 1972.

Globo, design di Enzo Mari per Magis, 2001.

Globo, design di Enzo Mari per Magis, 2001.

Aggregato, design di Enzo Mari per Artemide, 1976.

Aggregato, design di Enzo Mari per Artemide, 1976.

Delfina, design di enzo mari

Delfina, design di Enzo Mari per Driade, 1979.


Francesca Esposito

Giornalista, collabora per diverse testate, scrivendo di architettura, fotografia, arti e mestieri. Si occupa di comunicazione nella nuova Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Vive nel cuore del quartiere cinese di Milano, dopo aver vissuto a Shenzhen, a Roma, a Parma, a Londra e a Parigi. Sta programmando una fuga.


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