6 Ottobre 2016
Non era un calciatore qualsiasi, sul campo da gioco faceva davvero la differenza. E mancava raramente l’appuntamento con il gol. Oldani, prima di diventare l’allievo di Gualtiero Marchesi, Alain Ducasse e Albert Roux, aspirava ad altro. Prima di rilevare un ristorante a Cornaredo e trasformarlo nel D’O con una stella Michelin; prima di dare vita alla cucina pop e diventarne il messia; prima di essere oggetto di studio ad Harvard; prima dell’Ambrogino d’Oro nel 2008; prima di scrivere una serie di libri e di disegnare una serie di piatti, sedie e posate. Ecco, prima di ogni cosa, Oldani sognava Italia 90 e la maglia della Nazionale. Lo confessa lui stesso nel nuovo ristorante inaugurato lo scorso giugno a San Pietro all’Olmo, frazione di Cornaredo, a pochi metri dal vecchio. La luce che filtra dalle finestre disegnate da Piero Lissoni dona al locale l’intensità di un luogo sacro. La vetrata d’ingresso si affaccia su una piazzetta con al centro un grande olmo, di fronte alla chiesa abbaziale di San Pietro. All’interno, spiccano un salotto anni Settanta con divanetti in velluto azzurro Plastics Duo di Lissoni per Kartell e lo sgabello Pilastro di Ettore Sottsass, una cucina prodotta da Marrone, lampade Driade firmate da Lissoni e Philippe Starck, tavoli e sedie in legno d’olmo realizzati da Riva 1920.
“Frattura multipla scomposta”, ricorda nitidamente. “Ma è stata colpa mia. Avevo 16 anni e disubbidii a mio padre che non voleva giocassi partitelle a scuola perché ero già in serie C2. Sul letto d’ospedale, con la gamba rotta, mi disse solo una frase: non sei stato abbastanza intelligente. Devastante”.
Sembra un apologo.
Sai cosa? Bisogna sempre ascoltare i genitori.
Non credo, disobbedire fa parte del gioco. Anche tua figlia Camilla – due anni – lo farà.
A lei potrò raccontare che avevo un sogno nel cassetto.
Oggi sei qui. Davvero avresti preferito fare il calciatore?
Il primo sogno era quello e il cassetto è ancora lì, con dentro un nuovo sogno, che si è avverato. La mia forza è credere in quello che faccio, quindi mi sono dedicato subito ad altro, senza perdere troppo tempo.
Il calcio è ancora, come diceva Pasolini, l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo?
Forse sì, ho provato a riavvicinarmi al calcio. Qualche volta vado allo stadio, ho il cuore nerazzurro e sono amico dei Moratti. Ma è sempre più un argomento da bar, non è una cosa che mi tocchi particolarmente. Mi interessa invece parlare di cucina abbinata allo sport, e parlarne con i giovani per spingerli a praticare una disciplina. Lo sport salva i giovani. Per questo sono anche testimonial della Fondazione Laureus, un incarico che danno a tanti atleti, mentre io sono l’unico cuoco.
Come si struttura la tua giornata-tipo?
Inizia presto e finisce tardi. È mia abitudine alzarmi alle 7, e andare a letto verso l’1.30. Dalle 7 a mezzanotte c’è tutto il mondo che ruota intorno al progetto chiamato D’O.
Partiamo dalle 7, suona la sveglia.
Poca colazione la mattina, possibilmente un caffè verso le 9.30-10, non subito.
Perché non subito?
Perché i miei rituali mattutini non lo richiedono. Preso il caffè, mi metto al computer, ho cinque o sei appuntamenti, stacco alle 12 per il servizio al D’O e riprendo alle 15. In questo momento, l’impegno è cresciuto perché stiamo aprendo un locale a Manila, nelle Filippine, e a Singapore.
Far East.
A Manila siamo andati quattro volte negli ultimi tre anni. È una metropoli in forte espansione. Noi saremo di fronte alla Borsa, al pianterreno di un palazzo che ne conta sessanta. È un bel posto, ci sono tutti: Madrid Fusión, Cartier, Mercedes, Eataly, Grom. Come d’abitudine per il D’O, facciamo tutto in maniera discreta.
Chi ti accompagna quando fai questo tipo di affari?
Il mio avvocato e i miei collaboratori. Ci stiamo sviluppando in diversi settori: D’O è il main business, per qualità, eccellenza e passione, poi ci sono i nuovi brand come Food, il marchio con cui apriamo a Manila e Singapore.
Da dove nasce tutto questo?
Dalla qualità del nostro lavoro.
Perché le sedie qui, nel nuovo D’O, hanno un solo bracciolo?
Perché gran parte delle persone si appoggia su un solo lato.
E il piano sotto la seduta?
È uno spazio dove riporre le cose personali: occhiali, portafoglio, borsa, cellulare. Utilissimo.
Non c’è la tovaglia, perché?
C’è un cerchio di feltro grigio dove appoggiare il piatto. La tovaglia non c’è perché voglio valorizzare l’artisticità di questo tavolo rotondo.
Nessun capotavola.
Nessuno. Il tavolo, poi, è cinque centimetri più alto della norma.
E la sedia?
Anche.
Perché?
Perché quando mangi seduto, il cibo si ferma nello stomaco. Per digerire hai bisogno di alzarti da tavola. Il modo migliore sarebbe mangiare in piedi, ma poi per alcuni potrebbe essere poco rilassante. Così ho pensato a una via di mezzo: tavolo e sedia più alti.
Perché non inauguri il primo ristorante stellato al mondo dove si mangia in piedi?
Non sono un rivoluzionario, sono per l’evoluzione. I rivoluzionari, in altri campi, non mi pare abbiano avuto un gran successo.
Al mondo però c’è bisogno di rivoluzionari, ogni tanto.
No, il mondo ha bisogno di evoluzioni, non di rivoluzioni. Prendi il caso del tavolo e della sedia più alti: è una risposta soft all’esigenza di assumere una posizione che favorisca una digestione più rapida.
A ognuno il suo mestiere. Perché non ci sono arrivati prima i designer, che progettano sedie da sempre?
Posso parlare per me. Tutto quello che faccio nasce dall’osservazione.
E al progettista Piero Lissoni cos’hai detto?
Lissoni ha una visione diversa. Per me lo stomaco non deve essere schiacciato e deve rimanere dritto. Anche per questa ragione il galateo dice di rimanere composti. Se hai rispetto per il cibo, per te stesso, per la tua digestione e per le persone con cui stai a tavola, stai dritto.
Il tuo segreto, già svelato, è racchiuso in cinque vocali che corrispondono a cinque parole: amore, educazione, intraprendenza, obbedienza e umiltà. Mi interessa l’educazione.
L’esempio è la forma più profonda di insegnamento, mio padre quando ero piccolo mi ha sempre dato delle spiegazioni.
Come si fa a lavorare da D’O, si manda il classico curriculum vitae?
È semplicissimo: ci si presenta, si parte dal curriculum vitae e poi inizia un percorso fatto di incontri e letture. Invitiamo i ragazzi a leggere tutti i nostri libri, per comprendere meglio il nostro modo di lavorare.
Da dove arriva la maggior parte delle richieste?
Da tutta Italia. Ultimamente abbiamo iniziato a ricevere qualche richiesta dall’estero, perché D’O si sta espandendo.
Tu parli molto del gruppo. Per Rizzoli hai anche scritto Pop. La nuova grande cucina italiana. D’O, ricette e gioco di squadra.
Ricordati che ero un calciatore, e a calcio non vinci se hai solo il portiere e l’attaccante bravi. Vinci se hai una buona squadra. Qui è uguale. Ho ripreso tutto ciò che mi apparteneva da piccolo: lo sport, il movimento, gli amici. L’ho ripreso e riportato nel mio ambiente naturale, che è il lavoro.
Ci sono tante donne in cucina?
Non molte.
Non è un mestiere per donne?
Lo è. Mia madre era la chef di casa. La donna tiene insieme la famiglia e ha una marcia in più perché partorisce e dà la vita. Ho visto la forza di Evelina, la mia compagna: è stata male quattro mesi, io non avrei retto. Vengo da una famiglia molto unita, dove mio padre era il dominus e sembrava che lavorasse solo lui. Ma la mia famiglia è rimasta forte e unita per merito di mia madre.
Della serie, dietro un grande uomo c’è una grande donna.
Credo che avere gli stessi diritti non significhi essere uguali, siamo naturalmente differenti. Ma tutto questo va spiegato bene e condiviso con persone intelligenti, altrimenti rischi di essere frainteso.
Ti chiami Davide Maria. Sei credente?
Sono un cattolico non praticante. Mi sono riavvicinato alla chiesa da quando è mancato mio padre. Gli uomini di chiesa mi hanno sempre lasciato indifferente, poi tre anni fa è arrivato Papa Francesco e mi si è aperto un mondo. Nel nostro ufficio sulla parete c’è una frase di Bergoglio: Permesso, Scusi, Grazie. Dobbiamo avere un po’ di fede in qualcosa.
Tu in cosa hai fede?
Nelle persone, nella loro capacità di fare del bene. Mi piace guardarle in faccia, fissarle negli occhi e capire. È importante credere nelle proprie idee senza demolire quelle degli altri. Etica e rispetto per me sono fondamentali. Ho fiducia nelle persone, ma sono intransigente: se mi deludi, non ti rivolgo più la parola.
D’O, se lo leggi velocemente sembra Dio. L’hai fatto apposta?
No. D’O è nato dal verbo dare, poi un mio amico grafico ci ha infilato un apostrofo. Il mio mondo è in queste due lettere: Davide, il piatto, la cucina circolare che facciamo. Certo, se lo scrivi velocemente ti viene da allungare l’apostrofo e diventa Dio.
Prima accennavi al galateo. Vogliamo rilanciarlo?
Prima andrebbe riscritto: bicchiere ondulato per il naso, piatto inclinato che non si deve alzare, una sedia più alta. Ogni cosa che facciamo qui è per il bene dell’ospite, che deve sentirsi perfettamente a suo agio. Dobbiamo essere il più possibile conviviali, democratici, pratici.
Quali sono i tuoi clienti preferiti?
Un’attività commerciale deve essere aperta a tutti. È la gente che sceglie se venire nel tuo ristorante, non è il titolare che decide quali clienti avere. Comunque, i clienti preferiti sono quelli che tornano.
Vecchio e nuovo D’O. Parliamo di piatti. Com’è cambiata la cucina? C’è stata un’evoluzione?
L’evoluzione è epocale. La grande cucina in cui lavoriamo, molto attrezzata, ci permette un affinamento continuo, soprattutto in termini di qualità. Cresciamo costantemente. I primi frutti del nuovo percorso si vedranno già nei menu di questo autunno.
Come funzionano le prenotazioni?
Basta chiamare e avere un po’ di pazienza per le nostre lunghe liste d’attesa.
Il tuo ristorante è stato un caso di studio ad Harvard e nei corsi di economia delle università di Parigi e Bologna.
Il mio ristorante rispecchia il mio modo di affrontare la vita. Il punto di partenza è sempre il rispetto per le persone: quelle che lavorano con me e i miei clienti.
Come la pensi politicamente: destra o sinistra?
Ti direi centro, ma la questione è un’altra. Io vorrei che la politica partisse dal fare. Dovremmo invertire il processo: prima si fa e poi si chiedono i voti. Io ho fatto bene delle cose e la gente me ne riconosce il merito, quindi posso andare sul palco e chiedere il loro voto. Solo se hai fatto bene puoi chiedere la fiducia degli elettori. Così vorrei che fosse.
Com’è andata con i tipi di TIM, che qualche mese fa ti hanno scelto come testimonial delle loro offerte business?
È andata così: durante il World Business Forum, a novembre dello scorso anno, ho incontrato una persona di TIM che condivideva il mio modo di lavorare, il mio approccio: ha sondato il mio interesse a diventare testimonial, io ero entusiasta, ho detto di sì, poi tutto è avvenuto rapidamente, in modo preciso e organizzato. Mi hanno abbinato a un prodotto intelligente, il cloud, che è perfetto perché per lavorare ho bisogno di spazio da destinare alle cose essenziali. Essere testimonial di TIM è un grande riconoscimento.
Come è stata l’esperienza alle Olimpiadi di Rio, dove ti sei dato da fare come Sport & Food Ambassador del team italiano?
È stata una esperienza fantastica, il confronto con ragazzi pronti ad affrontare la vita con tanta passione e sacrificio è rigenerante.
Cibo e sport sono anche i protagonisti del tuo ultimo libro, uscito da poco: D’O eat better. Ricette per lo sport. A chi lo consigli?
A tutti quelli che si vogliono bene, che amano il buon cibo, il movimento, la pratica sportiva.
Quando parli hai una specie di ruga, un senso di compiacimento facciale. Nemmeno per un momento mi sei sembrato malinconico.
Nella vita non dobbiamo mai essere malinconici. Non si guarda indietro, si va avanti. Bisogna avere il coraggio di azzardare ed evolvere. A volte tentenno un po’, dovrei essere più radicale e deciso. Ma quando decido, tutto il resto non conta più nulla.