Il Mito del Bauhaus
Genesi e sviluppo

22 Maggio 2019

Pandemia

L’epilogo tragico che si trasforma in prologo epico. I Nazisti, obbligando il Bauhaus – la celebre scuola di arte, design e architettura fondata nel 1919 a Weimar – a chiudere i battenti nel 1933, innescarono una diaspora drammatica ma incredibilmente feconda per tutti quei Paesi che ebbero la fortuna di riceverne i migranti. Volevano bloccare il contagio ma, a conti fatti, non fecero altro che favorire una pandemia inarrestabile, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi, a cent’anni di distanza dalla Genesi. Il caso più noto è quello degli Stati Uniti, che accolsero a braccia aperte un numero considerevole di Bauhäusler, tra cui i maestri più famosi: Walter Gropius (il Pio GroPius, fondatore del Mito) ad Harvard, Mies van der Rohe all’Illinois Institute of Technology, Josef e Anni Albers al Black Mountain College, Moholy-Nagy al New Bauhaus Chicago, etc. Furono loro a diffondere – ognuno a modo suo – i semi dell’esperienza tedesca dall’altra parte dell’Atlantico, influenzando le nuove generazioni di progettisti. Si pensi soltanto a qualche nome destinato a diventare celeberrimo, come Paul Rudolph o I.M. Pei, allievi di Gropius; oppure ai tanti emuli di Mies, da Philip Johnson, allievo molto particolare, in avanti. La santificazione del mito americano del Bauhaus avvenne con una cerimonia sacra, tenuta in una cattedrale newyorkese: nel 1938, il Museum of Modern Art mise in scena una grande mostra – con allestimento e catalogo firmati da Herbert Bayer1 – che divenne il Nuovo Testamento.

Walter Gropius, edificio del Bauhaus a Dessau, 1925-26, vista da sud. Foto: © Tadashi Okochi, Pen Magazine, 2010, Stiftung Bauhaus Dessau.

Walter Gropius, edificio del Bauhaus a Dessau, 1925-26, vista da sud. Foto: © Tadashi Okochi, Pen Magazine, 2010, Stiftung Bauhaus Dessau.

Nel resto del mondo, il Verbo si diffuse però in maniera molto più ampia e diversificata, come rimarcano le tante mostre preparate in occasione dell’attuale Giubileo (1919-2019). L’esposizione in scena al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, fino al 26 maggio 2019, illustra per esempio i rapporti tra Olanda e Bauhaus, partendo dalle origini fino alla traiettoria dei circa trenta esponenti della scuola, studenti e maestri, che dopo il 1933 ripararono nei Paesi Bassi lavorando per le industrie olandesi, aprendo studi professionali e insegnando a loro volta2. Molto meno nota è però l’eco del Bauhaus negli altri continenti, finalmente rivelata da un progetto di ricerca curato Marion von Osten e Grant Watson, Bauhaus Imaginista, che dopo tappe preliminari in giro per il mondo viene riassunto in occasione del centenario presso la Haus der Kulturen der Welt di Berlino (fino al 10 giugno 2019)3. In mostra si scoprono collegamenti e percorsi poco noti e spesso imprevisti, che conducono a un cambio di prospettive geografiche e storiografiche sul Bauhaus. Al centro della mostra vi sono soprattutto i molti esperimenti pedagogici che in diversa maniera possono essere considerati affini (o ispirati) a quello di Gropius e colleghi. Interessante, ad esempio, è il parallelo tra il primissimo Bauhaus e la scuola d’arte Kala Bhavan vicino a Calcutta, fondata lo stesso anno (1919) dal poeta indiano Rabindranath Tagore, che cercava di trovare una strada post-coloniale per il design locale mischiando tradizioni orientali (dall’India a Java), avanguardie e Arts & Crafts britanniche. Il risultato fu una specie di “modernismo rurale” (rural modernism), legato al contesto ma aperto allo scambio internazionale.

L’esperienza del Bauhaus, e soprattutto l’approccio didattico di Johannes Itten, entravano in risonanza con la scuola indiana. Se ne accorse la storica dell’arte austriaca Stella Kramrisch: chiamata a insegnare a Kala Bhavan, scrisse a Itten per organizzare una mostra sul Bauhaus a Calcutta, che si tenne nel 1922 alla 14th Annual Exhibition of the Indian Society of Oriental Art. Fu la prima mostra sulla scuola tedesca fuori dalla Germania; il primo tassello della sua fama internazionale4. L’esposizione berlinese è generosa di collegamenti: si va dalla Nigeria a Taiwan, dalla Corea del Nord alla Cina, dal Messico agli Stati Uniti, dal Brasile al Marocco, dalla Russia al Giappone. In molti Paesi, questo radicale rinnovamento didattico rappresentava un antidoto all’accademismo fino a quel momento imperante, spesso di matrice coloniale, al quale opporre la freschezza delle tradizioni locali. In questo senso, il Bauhaus funzionò, come nel caso del Research Institute for Life Design di Tokyo, fondato nel 1931, da piattaforma di scambio culturale in cui veniva meno l’accademica gerarchia tra arte alta e arti applicate. L’arte, spogliata del lato più vetusto della sua sacralità, diveniva materia da utilizzare quotidianamente per migliorare la vita di tutti, riflettendo gli impulsi – purtroppo presto disillusi – verso la democratizzazione della società. È importante sottolineare come la mostra eviti accuratamente la celebrazione del Bauhaus come motore e modello unico delle tante storie raccontate. Piuttosto, la complessità delle singole voci tende a creare una rete priva (o quasi) di gerarchie, esaltando l’arricchimento specifico generatosi in ogni singolo capitolo.

Alfred Schäfter (progetto e produzione), lampada a sospensione, prototipo, 1931-32. Foto: © Gunter Binsack, 2018, Stiftung Bauhaus Dessau.

Alfred Schäfter (progetto e produzione), lampada a sospensione, prototipo, 1931-32. Foto: © Gunter Binsack, 2018, Stiftung Bauhaus Dessau.

Mito e rigetto

Possiamo quindi parlare di molti Bauhaus, non di uno solo. Diversi Bauhaus coesistettero e si alternarono durante l’apertura della Scuola, ma molti di più – ufficiali o ufficiosi, collegati o paralleli – costituirono la sua eredità postuma, secondo un processo di strumentalizzazione che rappresenta un problema critico interessante al pari dell’effettiva attività della sua storia “originale”. L’evoluzione del post-Bauhaus negli Stati Uniti, a cui già si è fatto riferimento, rappresenta bene la polifonia di voci che si spartirono la sua eredità. Un esempio per tutti: la citata mostra del 1938 al MoMA trattava soltanto il periodo di Walter Gropius (1919-1928), escludendo le direzioni di Hannes Meyer e Mies, segnando l’inizio di un processo di “censura” storiografica5. In Italia, nel secondo dopoguerra, si possono invece ricordare le opposte interpretazioni date da Bruno Zevi e Giulio Carlo Argan. Per il primo, la scuola tedesca era considerata infatti “l’antipolo del dogmatismo lecorbusieriano e quasi una camera di decantazione per l’evoluzione dal razionalismo alla ‘tendenza organica’”6. Invece per Argan, che nel 1951 pubblicava per i tipi di Einaudi una mitica monografia7, la figura di Gropius (in quanto sinonimo di Bauhaus) fu presa a simbolo della necessità di un ruolo sociale e politico dell’architetto. Ognuno tirava acqua al suo mulino e il Bauhaus diveniva uno specchio nel quale riflettersi, magari aggiustando l’inclinazione per accentuare l’inquadratura più conveniente.

Insomma, il Bauhaus – come tanti altri fenomeni culturali – è stato canonizzato in vario modo a seconda della singola interpretazione o ideologia, con effetti dirompenti. Su questo aspetto faceva riflettere Reyner Banham, che già in Theory and Design in the First Machine Age (1960)8 aveva messo in luce le contraddizioni della scuola. Nel suo intervento intitolato Il Vangelo del Bauhaus, scritto per una conferenza alla radio inglese e poi pubblicato nel 1968 su The Listener9, Banham ragionava sul successo mediatico della scuola, a partire dal suo primo incontro con il libro The New Vision di Moholy-Nagy (1939)10. Con il suo acuto sarcasmo, il critico britannico scriveva: “Questo incontro… non fu come una conversione sulla via di Damasco, ma ebbi la netta sensazione di aver fra le mani un testo sacro, il Terzo Testamento, il vangelo secondo il Bauhaus”11. Banham sottolinea come simili libri, caratterizzati da un efficace ordinamento di concetti e relative immagini, fecero grande presa in Inghilterra: “Libri del Bauhaus come quelli di Moholy o di Klee (…) devono essere apparsi stupendamente solidi e convincenti (…): le teste d’uovo delle scuole d’arte vi si attaccarono come a dei salvagenti”12. Se Gropius, com’è noto13, non riuscì a realizzare il suo proposito di fondare un nuovo Bauhaus in Inghilterra, l’influenza arrivò attraverso pubblicazioni, piuttosto che tramite un contatto diretto con i protagonisti della scuola. “Libri, libri, sempre parole stampate. Divennero veramente parole divinatorie, perché i riformatori delle scuole d’arte sembravano credere che in quei libri vi fosse la rivelazione di un sistema educativo eternamente e universalmente valido. Sembrava che i docenti dovessero ridursi allo stato di umili depositari del Verbo (…)”14.

Walter Gropius (autore) e Lyonel Feininger (design copertina), Programm des Staatlichen Bauhauses in Weimar, aprile 1919, xilografia. Collezione privata, Paesi Bassi.

Come in una guerra santa, l’interpretazione delle Sacre Scritture – o delle opere realizzate – del Bauhaus portò a scontri accesi. Tra i più duri ricordiamo quelli scaturiti in seno alla Hochschule für Gestaltung di Ulm (1953-1968), scuola diretta inizialmente da Max Bill, ex studente del Bauhaus, che però si dimise nel 1956 proprio per contrasti interni, in particolare con Tomás Maldonado, che aveva in mente un programma educativo totalmente diverso15. Contro Bill si scatenò anche il pittore danese Asger Jorn, promotore del “Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista” (MIBI)16, a cui aderirono membri del Movimento nucleare (Enrico Baj, Sergio Dangelo) ed ex membri del gruppo CoBrA. Per Jorn, l’interpretazione di Bill era completamente fallace, perché troppo orientata alla tecnica a discapito della creatività, della fantasia, dell’immaginazione17. La strumentalizzazione non è avvenuta solo in positivo o alla ricerca di una verginità perduta. Nella visione di alcuni, il Bauhaus è divenuto infatti anche capro espiatorio per tutti i mali del secolo. Vedi Tom Wolfe che nel suo fortunato libretto intitolato From Bauhaus to Our House (1981) – tradotto in italiano con il più esplicito titolo Maledetti architetti – scelse la scuola tedesca come bersaglio18. Secondo Wolfe, l’America era stata invasa dal colonialismo intellettuale europeo, impersonato dal “Principe d’Argento” (Walter Gropius) e dagli altri “Dei Bianchi”, portando a un abbassamento generalizzato della qualità edilizia. “Il termine scatola di vetro e l’attributo ripetitivo, dapprima usati per obbrobrio, poi divennero onorifici. Mies trovò molti imitatori in America (…). Per uno ierofante del convento era facile sentirsi sicuro di sé. Che glien’importava, se gli dicevano che scopiazzava Gropius, Mies, Corbu e compagnia bella? Era come accusare un cristiano di imitare Gesù Cristo”19.

Va citata la rielaborazione – molto più raffinata – operata da Alessandro Mendini, che negli anni Settanta scelse l’iconografia del Bauhaus come sintesi – perfetta dal punto di vista comunicativo, data la sua fama – di un approccio funzionalista da superare nell’ottica di una liberazione della figura di designer come artista20. Nel 1975, Mendini, impegnato nella produzione di “oggetti ad uso spirituale”, creava una significativa installazione intitolata Lampada senza luce, costituita da una serie di lampade da tavolo di Marianne Brandt e Hin Bredendieck gettate in una pozzanghera e private della loro ragion d’essere: la lampadina. Togliendo l’attributo più funzionale del prodotto, la lampadina alla lampada, Mendini proclamava l’opposizione al diktat del Form Follows Function, uno degli slogan appiccicati al Bauhaus21. Tre anni dopo, con l’operazione di “redesign di mobili d’autore”, Mendini prendeva la famosa sedia Wassily di Marcel Breuer e la decorava con coloratissime forme post-futuriste: un altro apparente sberleffo che in realtà recuperava la libertà artistica della fase “espressionista” della scuola.

Più colorita l’interpretazione del Bauhaus data dal Profeta dell’architettura brasiliana, Oscar Niemeyer, che mai tenne nascoste le sue idiosincrasie per la scuola. In un’intervista del 2008 al giornale Correio Braziliense, egli giudicava il Bauhaus “il gruppo più imbecille che ci sia mai stato”, perché colpevole di non interessarsi alla forma delle cose. “Il capo della scuola, Walter Gropius, era uno stronzo. Venne a casa mia a Canoas (la magnifica casa di vetro con profilo sinuoso, immersa nel verde, progettata all’inizio degli anni Cinquanta a Rio de Janeiro, nda) e disse le più grandi cazzate che avessi mai sentito: ‘La tua casa è molto bella, ma non è moltiplicabile’. E ci credo, figlio di mignotta! Per essere moltiplicabile dovrebbe essere su un terreno pianeggiante, dovrei cercare una trama uguale e il mio obiettivo non era una casa moltiplicatrice, ma una buona casa in cui vivere. Erano così, senza luce. Il lavoro che il Bauhaus ha lasciato consiste in un sacco di case che si ripetono. È stato un momento che ha minacciato l’architettura, ma Le Corbusier e gli altri hanno reagito. Era un periodo in cui la stupidità voleva entrare nell’architettura, ma fu repressa”22.

Marianne Brandt e Hin Bredendieck, 679 GV, 1928, ghisa, ottone, ferro. Collezione De Groot. 

Marianne Brandt e Hin Bredendieck, 679 GV, 1928, ghisa, ottone, ferro. Collezione De Groot. 

Più complessa fu la rilettura storiografica del Bauhaus in Germania nel secondo dopoguerra, poiché essa toccava nervi scoperti, legati inizialmente all’opposizione della scuola al Nazismo, e in seguito al rapporto con l’ideologia dominante da una parte e dall’altra del Muro. A Est, soprattutto, la storia della scuola veniva spesso bollata come un fenomeno borghese, non degno di particolare riconoscimento. E difatti le case dei maestri del Bauhaus a Dessau furono lasciate deperire senza tanti complimenti. In particolare, la Gropius Haus, emblema di modernità negli anni Venti, e poi bombardata durante la guerra, fu addirittura sostituita da una villetta anonima col tetto a falde. Questa è rimasta in piedi fino alla recente idea di demolirla e ricostruirne una sorta di simulacro ispirato all’edificio originale, inaugurato nel maggio del 201423. Al di là della sua effettiva qualità architettonica, il progetto di tale “avatar”, firmato dallo studio berlinese Bruno Fioretti Marquez (due italiani e un argentino), solleva però numerose domande rispetto al criterio di selezione, rimozione e ricostruzione di una simile vicenda storica. Per quanto scialba, l’abitazione costruita in epoca sovietica sulle fondamenta della Gropius Haus rappresentava infatti, nella sua pochezza, il segno più concreto e tangibile della violenza della guerra e della successiva damnatio memoriae che aveva colpito le tracce del Bauhaus. A Ovest, invece, nel dopoguerra si è assistito a una sorta di mitizzazione, e parallelamente alla conseguente critica di tale idealizzazione. “Qui è sorto un culto”, scriveva l’ex allievo Waldemar Alder ad Hannes Meyer nel 1947, “come se i Bauhäusler appartenessero a una speciale categoria di persone dalle particolari capacità artistiche e dall’eccellente rigore morale. Ma non è così”24. Le critiche si inaspriranno negli anni della RDT25. Da un lato e dall’altro del Muro o dell’Oceano, il Bauhaus è stato insomma utilizzato come vessillo o come capro espiatorio, come modello o come nemico, secondo un’altalenante valutazione ideologica e storiografica.

Bauhaus oggi

Considerando la strumentalizzazione del Bauhaus come un problema critico inseparabile da quello della sua ricostruzione storica26, l’odierno Giubileo offre quindi la possibilità di fare il punto su un fenomeno storicizzato, ma allo stesso tempo in continuo divenire. Da un lato, il Bauhaus, visto come patrimonio storico nazionale tedesco (ma anche statunitense, nelle sue resurrezioni), ha trovato nel Centenario il megafono per l’amplificazione mediatica e il rinnovamento della propria fama, grazie a uno straordinario stanziamento di fondi, altrimenti impensabile, che ha messo in moto iniziative ambiziose. Quanti altri Paesi hanno mai pensato, negli ultimi anni, di costruire ben tre nuovi musei nello stesso momento, dedicati allo stesso argomento? A Weimar è stato infatti da poco inaugurato un nuovo Bauhaus Museum e a breve si attende il completamento del museo di Dessau, mentre è ancora in cantiere l’ampliamento del Bauhaus-Archiv a Berlino. Opera di Gropius, quest’ultimo sarà integralmente ristrutturato dall’architetto Volker Staab. Solo nei prossimi anni potremo valutare in che modo le collezioni ospitate da tali contenitori saranno esposte e interrogate.

Piet Mondrian, Neue Gestaltung (n. 5 della serie Bauhausbücher), grafica László Moholy-Nagy, 1925. Collezione privata, Paesi Bassi. 

Dall’altro lato, come dimostra l’esposizione Bauhaus Imaginista, le ricerche più recenti sono state capaci di aprire nuove interpretazioni storiografiche, in cui la celebrazione cede il passo a una ramificazione delle eredità, delle reciproche influenze, delle contaminazioni. Nonché alla scoperta di contributi meno noti e battuti, a cominciare da quello femminile27: sono moltissime le donne in vario modo legate alla storia del Bauhaus che in questo centenario hanno finalmente trovato visibilità. In quest’ottica, il Bauhaus diventa uno strumento interpretativo – fondamentale ma non limitante e non esaustivo – della complessità dell’evoluzione dei modelli pedagogici nel XX secolo. Da specchio, in questo caso il Bauhaus diventa filtro, capace di allargare e affinare lo sguardo invece di riflettere soltanto un’inquadratura studiata a tavolino. Resta in sospeso, o meglio in continuo sviluppo, ciò che potremmo chiamare “l’eredità operativa” del Bauhaus, ovvero in quale modo l’esempio della scuola sia ancora fonte d’ispirazione per i progettisti – grafici, designer, architetti, artisti – dei nostri giorni. Anche su questo, la mostra Bauhaus Imaginista ha cercato di dare una risposta, chiedendo ad alcuni artisti di creare opere “ispirate” al lavoro dei Bauhäusler. Molti altri progettisti, negli ultimi anni, hanno svolto riflessioni – più o meno – concrete dichiarando un legame diretto con la scuola tedesca. Gli esempi più interessanti ed efficaci sembrano quelli che del Bauhaus hanno voluto prendere non tanto le forme, ma l’idea di un design capace di influire sulla società. Van Bo Le-Mentzel, architetto tedesco originario del Laos, è diventato noto al pubblico per una collezione di mobili fai-da-te, Hartz-IV-Möbel, sfruttando l’iconicità di alcuni pezzi di Marcel Breuer e altri28. L’idea, in realtà più vicina all’autoprogettazione di Enzo Mari29 che al Bauhaus, ha stimolato poi ulteriori performance e iniziative, anche in collaborazione con il Bauhaus-Archiv di Berlino. Il Bauhaus Campus Berlin, svoltosi nel 2017-2018 all’ombra del museo, è per esempio servito da piattaforma fisica e concettuale in cui hanno trovato spazio una serie di Tiny Houses: piccole unità abitative mobili ispirate alle ricerche sull’abitare nella Repubblica di Weimar, ma con una funzione attualizzata ai problemi odierni, come l’alloggio dei rifugiati.

Per contro, esiste ormai da tempo un fenomeno di trivializzazione – analizzato bene da Annemarie Jaeggi, direttrice del Bauhaus Archiv di Berlino30 – che in diversa maniera sfrutta la potenza mediatica del brand inventato da Walter Gropius cento anni fa. Lasciando perdere le decine di casi in cui il nome Bauhaus è stato utilizzato per iniziative non legate al design o all’architettura (giocattoli, esercizi commerciali di ogni genere, negozi di fai-da-te, etc.), nel più stretto ambito progettuale sono numerosi i casi in cui esso è servito da specchietto per le allodole. Tra arredi e abitazioni “in stile Bauhaus” la lista sarebbe lunghissima; perciò citiamo solo uno degli ultimi casi: quello degli occhiali da sole Walter & Wassily (marca Neubau Eyewear), fatti uscire in occasione del Giubileo. Le parole addotte per spiegarne il legame con i due maestri (Gropius e Kandinsky) sono piuttosto deboli, ricche di cliché e banalità, ma perfette come esca: “The high-end sunglasses are also a creative take on their ethos that ​‘form follows function’. For our ​Walter & Wassily campaign shoot, we reinterpreted the legendary Bauhaus credo and, adopting the motto ‘human follows form’, we’ve shown how design and people can be staged as an innovative duo. While interior design and architecture have long been celebrated as the primary disciplines of good taste, we have strived to make sunglasses — our everyday companions — an impressive design object”. Specchio, specchietto, filtro, occhiale da sole, paraocchi o telescopio per sondare nuovi orizzonti, il Bauhaus rimarrà un mito ancora a lungo.

Walter Gropius, edificio del Bauhaus a Dessau, 1925-26, vista da sud. Foto: © Tadashi Okochi, Pen Magazine, 2010, Stiftung Bauhaus Dessau.

Walter Gropius, edificio del Bauhaus a Dessau, 1925-26, vista da sud. Foto: © Tadashi Okochi, Pen Magazine, 2010, Stiftung Bauhaus Dessau.

Cartolina del Bauhaus di Weimar, da Theo van Doesburg all’amico Antony Kok, 21 settembre, 1921. RKD – Netherlands Institute for Art History, L’Aia (Archivio Theo e Nelly van Doesburg).

Cartolina del Bauhaus di Weimar, da Theo van Doesburg all’amico Antony Kok, 21 settembre, 1921. RKD – Netherlands Institute for Art History, L’Aia (Archivio Theo e Nelly van Doesburg).

Peter Keler, Appartamento a Weimar, progetto e realizzazione, 1927, gouache su carta. Collezione privata, Paesi Bassi.

Peter Keler, Appartamento a Weimar, progetto e realizzazione, 1927, gouache su carta. Collezione privata, Paesi Bassi.

Johan Niegeman, Junkers, 1929, collage su cartoncino. Collezione privata.

Johan Niegeman, Junkers, 1929, collage su cartoncino. Collezione privata.

Jettie Olivier, elaborato scolastico realizzato presso la Nieuwe Kunstschool, 1938 circa, gouache su carta. Collezione privata.   

Jettie Olivier, elaborato scolastico realizzato presso la Nieuwe Kunstschool, 1938 circa, gouache su carta. Collezione privata.   

Bertus Mulder, studio di colore realizzato per il corso di Helene Nonné-Schmidt presso la Hochschule für Gestaltung di Ulma, 1956. HfG-Archiv, Ulma.

Bertus Mulder, studio di colore realizzato per il corso di Helene Nonné-Schmidt presso la Hochschule für Gestaltung di Ulma, 1956. HfG-Archiv, Ulma.

Marguerite Friedlaender e Franz Wildenhain (Het Kruikje, Putten), articoli per la tavola, 1934-40, gres porcellanato. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. Foto: © Tom Haartsen.

Marguerite Friedlaender e Franz Wildenhain (Het Kruikje, Putten), articoli per la tavola, 1934-40, gres porcellanato. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. Foto: © Tom Haartsen.

Marcel Breuer, Set di quattro tavolini, 1926 circa, metallo nichelato, legno dipinto. Collezione privata, Germania. 

Marcel Breuer, Set di quattro tavolini, 1926 circa, metallo nichelato, legno dipinto. Collezione privata, Germania. 

Sedia Wassily, nota anche come Modello B3, disegnata da Marcel Breuer, 1925. © D Rose Mode.

Sedia Wassily, nota anche come Modello B3, disegnata da Marcel Breuer, 1925. © D Rose Mode.

Herbert e Irene Bayer, prospetto di Bauhaus. Dessau. Hochschule für Gestaltung, 1927. Collezione privata, Paesi Bassi. 

Herbert e Irene Bayer, prospetto di Bauhaus. Dessau. Hochschule für Gestaltung, 1927. Collezione privata, Paesi Bassi. 

Copertina di Bauhaus: Zeitschrift für Gestaltung 2, 1931, con tessuto fotografato da Margaret Leischner. Collezione privata, Paesi Bassi.

Copertina di Bauhaus: Zeitschrift für Gestaltung 2, 1931, con tessuto fotografato da Margaret Leischner. Collezione privata, Paesi Bassi.

Theo van Doesburg, Grundbegriffe der neuen gestaltenden Kunst (n. 6 della serie Bauhausbücher), grafica Theo van Doesburg, 1925. Collezione privata, Paesi Bassi. 

Theo van Doesburg, Grundbegriffe der neuen gestaltenden Kunst (n. 6 della serie Bauhausbücher), grafica Theo van Doesburg, 1925. Collezione privata, Paesi Bassi. 

De 8 en Opbouw, edizione 11 gennaio, 1936. Collezione privata, Paesi Bassi

De 8 en Opbouw, edizione 11 gennaio, 1936. Collezione privata, Paesi Bassi.

Marcel Breuer, poltroncina ti 1a, 1923, legno, tessuto, realizzata presso il laboratorio di arredamento del Bauhaus di Weimar. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. Foto: © Tom Haartsen.

Marcel Breuer, poltroncina ti 1a, 1923, legno, tessuto, realizzata presso il laboratorio di arredamento del Bauhaus di Weimar. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. Foto: © Tom Haartsen.

Willem Hendrik Gispen, Giso 22, lampada a sospensione, 1927, vetro opalino, rame cromato, prodotta presso la Fabriek voor Metaalbewerking di Gispen, Rotterdam. Museum Boijmans Van Beuningen. Foto: © Ad van den Bruinhorst.

Willem Hendrik Gispen, Giso 22, lampada a sospensione, 1927, vetro opalino, rame cromato, prodotta presso la Fabriek voor Metaalbewerking di Gispen, Rotterdam. Museum Boijmans Van Beuningen. Foto: © Ad van den Bruinhorst.

Da sinistra: Walter Gropius, Wassily Kandinsky e J.J.P. Oud durante l’esposizione del Bauhaus a Weimar, 1923. Canadian Centre for Architecture (CCA), Montreal.

Da sinistra: Walter Gropius, Wassily Kandinsky e J.J.P. Oud durante l’esposizione del Bauhaus a Weimar, 1923. Canadian Centre for Architecture (CCA), Montreal.

Note

1 Herbert Bayer, Walter Gropius, Ise Gropius, edited by, Bauhaus, 1919-1928, MoMA, New York, 1938.

2 Mienke Simon Thomas, Yvonne Brentjens, Netherlands – Bauhaus. Pioneers of a New World, Museum Boijmans van Beuningen, Rotterdam, 2019.

3 Marion von Osten, Grant Watson, Bauhaus Imaginista, Thames & Hudson, London, 2019.

4 Partha Mitter, “Teaching Art at Santiniketan: Some Unexpected Meeting Points”, in Marion von Osten, Grant Watson, op. cit., pp. 36-43, e Anshuman Dasgupta, “The Intimate and the Contingent: Art and Craft in the Pedagogy of Santiniketan”, ivi, pp. 44-52.

5 Andrea Maglio, Hannes Meyer: un razionalista in esilio. Architettura, urbanistica e politica 1930-54, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 135.

6 Ezio Bonfanti, Massimo Scolari, “Presentazione”, in Controspazio, 4-5, aprile-maggio 1970, p. 7.

7 Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino, 1951.

8 Reyner Banham, Theory and Design in the First Machine Age, The Architectural Press, London, 1960.

9 Reyner Banham, “The Bauhaus Gospel”, in The Listener, 26 settembre 1968, pp. 390-392, poi pubblicato in italiano come “Il Vangelo del Bauhaus”, in Controspazio, 4-5, aprile-maggio 1970, pp. 96-100.

10 László Moholy-Nagy, The New Vision: Fundamentals of Design, Painting, Sculpture, Architecture, Faber & Faber, London, 1939.

11 Reyner Banham, “The Bauhaus Gospel”, in op. cit., p. 390; “Il Vangelo del Bauhaus”, in op. cit., pp. 96-97.

12 Reyner Banham, “The Bauhaus Gospel”, in op. cit., p. 390; “Il Vangelo del Bauhaus”, in op. cit., p. 97.

13 Cfr. tra gli altri Leyla Daybelge, Magnus Englund, Isokon and the Bauhaus in Britain, Batsford, London, 2019.

14 Reyner Banham, “The Bauhaus Gospel”, in op. cit., p. 390; “Il Vangelo del Bauhaus”, in op. cit., p. 97.

15 Cfr. gli scritti sul Bauhaus in Tomás Maldonado, Avanguardia e razionalità: articoli, saggi, pamphlets 1946-1974, Einaudi, Torino, 1974.

16 Jorn Asger, Pour la Forme: ébauche d’une méthodologie des arts, Paris, 1958, ristampato da Editions Allia, 2001. Cfr. anche La memoria e il futuro. I Congresso Internazionale dell’Industrial Design, Triennale di Milano, 1954, Skira, Milano, 2001, p. 88.

17 Mirella Bandini, L’estetico, il politico. Da Cobra all’Internazionale Situazionista 1948-1957, Officina Edizioni, Roma, 1977, cap. II.

18 Tom Wolfe, From Bauhaus to Our House, Farrar, Straus & Giroux, New York, 1981; ed. it. Maledetti architetti. Dal Bauhaus a casa nostra, Bompiani, Milano, 1998 (prima edizione italiana 1988).

19 Ivi, p. 70.

20 Fulvio Irace, Codice Mendini, Electa, Milano, 2016.

21 Quale dei tanti Bauhaus? In realtà, la massima fu prima pronunciata dal grande Louis Sullivan, il maestro di Frank Lloyd Wright, non di Mies.

22 L’intervista è apparsa sul Correio Braziliense del 14 dicembre 2008.

23 Gabriele Neri, “Torna la casa di Gropius”, ne Il Sole 24 Ore, inserto domenicale, 25 maggio 2014, p. 30.

24 Lettera di Waldemar Alder ad Hannes Meyer, 16 giugno 1947, citata in Andrea Maglio, op. cit., p. 138.

25 Paul Betts, “Il Bauhaus nella Repubblica democratica tedesca”, in Jeannine Fiedler, Peter Feierabend, edited by, Bauhaus, Könemann, Köln, 1999; ed. it. 2000, pp. 42-49.

26 Ezio Bonfanti, Massimo Scolari, Presentazione, “Controspazio”, 4-5, aprile-maggio 1970, pp. 6-7.

27 Cfr. sul tema Ulrike Müller, Bauhaus Women: Art, Handicraft, Design, Flammarion, Paris, 2009; Marion von Osten, Grant Watson, Bauhaus Imaginista, op. cit.

28 Van Bo Le-Mentzel, a cura di, Hartz IV Moebel.com: Build More, Buy Less!, Hatje Cantz, Berlin, 2012.

29 Enzo Mari, Proposta per un’autoprogettazione, Simon International, Milano, 1974.

30 Annemarie Jaeggi, “La scuola dell’avanguardia. Bauhaus: un modello concettuale”, in Christoph Frank, Bruno Pedretti, a cura di, L’architetto generalista, Mendrisio Academy Press / Silvana Editoriale, Mendrisio / Cinisello Balsamo, 2013, pp. 163-177.


Gabriele Neri

Architetto e PhD, insegna storia del design a Milano e a Mendrisio. Collabora con Domenica del Sole 24 Ore e con la rivista svizzera Archi. Dopo alcuni libri su Pier Luigi Nervi, ha pubblicato Caricature architettoniche. Satira e critica del progetto moderno (Quodlibet, 2015), di cui va molto fiero. Ha una figlia bellissima soprannominata Attila.


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