31 Gennaio 2013
La questione è aperta. L’arte, per uscire dall’autoreferenzialità che la preserva dal confronto con il pubblico di non addetti ai lavori, dev’essere per forza ludica e interattiva? Verrebbe facile rispondere di sì, soprattutto alla luce di alcuni esempi: dalle migliaia di persone in coda nel 2007 alla Tate Modern per sfrecciare sugli scivoli di Carsten Höller, alla recente installazione di Tomás Saraceno all’Hangar Bicocca (ultimo giorno domenica 17 febbraio), curata da Andrea Lissoni, con alcuni visitatori impegnati a gattonare su dune sospese di PVC e altri sotto, col naso all’insù, per partecipare comunque a questo rito collettivo in un clima di euforia diffusa. Un’energia che riverbera negli altri spazi dell’Hangar: dal laboratorio per bambini al bar-ristorante, entrambi talmente animati che sembra di essere all’estero. Per non nascondersi dietro la foglia di fico di sterili intellettualismi che mandano in brodo di giuggiole gli esperti, ma lasciano giustamente perplessa la gente, quando si progettano mostre il pubblico andrebbe sempre tenuto in considerazione. Non tanto per fare audience con una mentalità da dati Auditel, ma, piuttosto, per costruire un sistema dell’arte meno autoriferito e quindi socialmente più rilevante. Quindi, ben vengano strategie ludico-partecipative anche un po’ estreme come quelle attivate dall’intervento di Saraceno. Il problema della mediazione culturale è complesso, ma l’Hangar Bicocca sembra proprio aver imboccato la strada giusta.