Adrian Paci
Interview

8 Maggio 2013

L’arte di Adrian Paci racconta, attraverso la forza di un linguaggio limpido ed estremamente poetico, il dramma che accompagna ogni passaggio, il dolore del transito da un luogo a un altro, da una realtà cara e familiare a un mondo nuovo e perciò ignoto. Si tratta di un racconto fatto con la pittura, il video e la performance – una storia che trae ispirazione dalla vicenda personale dell’artista, originario dell’Albania e trasferitosi a Milano nel 1997. Vies en transit è il nome della retrospettiva parigina di Adrian Paci, classe 1969, il cui lavoro – oramai consacrato internazionalmente –  è stato esposto in due Biennali di Venezia e al MoMA PS1 di New York. Retrospettiva che avremo il piacere di ammirare, seppur in una nuova veste, il prossimo autunno al PAC di Milano.

"Adrian Paci. Vies en transit", Jeu de Paume, Paris, 2013 Photographe : Romain Darnaud © Jeu de Paume

Adrian Paci. Vies en transit, Jeu de Paume, Paris, 2013. Photo: Romain Darnaud © Jeu de Paume

Sei nato nel 1969 in Albania, a Scutari. Sei venuto per la prima volta in Italia nel 1992, a Milano, all’età di ventidue anni, grazie a una borsa di studio; nel 1997 hai deciso di lasciare il tuo Paese a causa dei disordini politici, e così ti sei trasferito definitivamente a Milano con la tua famiglia. Che impressione ti ha fatto la prima volta questa città, e in che modo l’Italia e l’ambiente artistico milanese hanno contribuito alla definizione del tuo stile?

L’incontro con l’Italia e con Milano nel 1992 fu piuttosto complesso. Io venivo da una realtà completamente diversa, e l’arte internazionale per me era soltanto un mucchio di libri. Non avevo avuto la possibilità di visitare musei o città d’arte, né di conoscere artisti. Persino il mio approccio verso la storia dell’arte si basava principalmente sul rapporto con le immagini, non sulle parole o l’analisi critica, perché queste ultime erano sempre contaminate da una posizione fortemente ideologica. Fin da bambino mi piaceva guardare i libri di mio padre, che era un pittore. Cercavo di conoscere l’arte al di fuori dell’Albania attraverso i libri, o meglio, attraverso le immagini dei libri. Era così che tentavo di costruirmi una cultura artistica alternativa rispetto a quella impartita dal regime. Giunsi la prima volta a Milano con molte speranze e aspettative. Avendo ottenuto una borsa di studio, facevo parte della categoria dei privilegiati: vivevo in un pensionato e andavo in una scuola. Frequentai la Scuola Beato Angelico di Milano per studiare Arte e Liturgia. Provenivo da un Paese forzatamente ateo, ma avevo dell’arte sacra una concezione molto alta. Questa dimensione di spiritualità ci era stata completamente negata durante gli anni del comunismo: cercavo qualcosa di nuovo, ma questo qualcosa doveva possedere una forte carica spirituale. Presso la Scuola Beato Angelico si trovava anche un Istituto d’Arte, in cui gli studenti eseguivano esercizi sul colore e sulle forme astratte – cosa che io non avevo mai fatto durante gli anni dell’Accademia in Albania perché avevo sempre lavorato sulla figura umana. Tuttavia, rimasi deluso quando vidi i lavori di questi ragazzi: loro concepivano l’astratto soltanto come un gioco di colori, di superfici e di forme. Io, invece, lo intendevo come frutto della ricerca di una dimensione più profonda. Rispetto allo stile tradizionale del realismo socialista, la novità per me stava nell’astrattismo, nell’informale, nella liberazione del gesto e dell’espressività. Cosa che in Italia era ormai passata da anni. Era come se mi sentissi tradito nelle mie aspettative, verso quel genere di arte che desideravo praticare e conoscere meglio.

"Adrian Paci. Vies en transit", Jeu de Paume, Paris, 2013 Photographe : Romain Darnaud © Jeu de Paume

Adrian Paci. Vies en transit, Jeu de Paume, Paris, 2013. Photo: Romain Darnaud © Jeu de Paume

In Albania hai studiato pittura, ma la prima opera con cui hai raggiunto la notorietà internazionale è un video del 1997, Albanian Stories, presentato due anni dopo alla Biennale di Venezia. La protagonista del lavoro è tua figlia Jolanda, che racconta attraverso il linguaggio della favola la drammatica situazione politica in Albania e la storia del vostro trasferimento in Italia. Come sei arrivato al medium del video?

Al video sono arrivato un po’ per caso. Il video non era un obiettivo: lo scopo era quello di capire cosa potessi fare, dove potessi collocarmi nel discorso dell’arte. Albanian Stories nasce da questa ricerca continua. Durante questa ricerca può accadere qualcosa, può capitare di trovarsi dinnanzi a una situazione che merita di essere osservata e rappresentata. Così è accaduto con i racconti di mia figlia. Non potevo né dipingerli, né disegnarli o fotografarli: dovevo filmarli. In quel video, la forza non sta in me come artista ma in quello che succede davanti ai miei occhi. Quella fu una grande lezione: tu come artista non devi raccontare agli altri i tuoi problemi, né mostrare la tua bravura o le tue mancanze, il tuo virtuosismo o la tua incapacità. Tu devi stabilire un rapporto con qualcosa. Il video era il filtro necessario e quello più immediato – non vuole compiacersi di sé come mezzo, né desidera compiacere il suo autore.

Adrian Paci Albanian Stories 1997

Adrian Paci, Albanian Stories, 1997. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

Spesso parti dall’immagine-video e la rielabori in pittura – penso alla serie di dipinti tratti dai filmati dei matrimoni albanesi o ai lavori ispirati a Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Una volta hai dichiarato di concepire la pittura come una forma primitiva e meno costosa del cinema. Che rapporto intercorre tra pittura e video nel tuo lavoro?

Non appena cominciai a utilizzare il video – un mezzo che non conoscevo affatto da un punto di vista tecnico, ma che si rivelò essere così fortunato, così felice nel trasmettere quell’esperienza – in un certo senso misi in discussione il mio rapporto con la pittura, che avevo praticato e studiato per molti anni. Perciò, dopo i miei primi video – non solo Albanian Stories, ma anche Believe me I am an artist, Piktori o Apparizione – adottai un atteggiamento diverso nella pittura. Questa divenne più semplice, diretta, meno impegnata a costruire l’immagine e più interessata a tradurre un immaginario: come una voce che legge un testo già scritto. I miei dipinti così cercano di rispondere a delle immagini che già esistono all’interno di una dimensione filmica: la mia prima azione come pittore, dunque, consiste nel cogliere l’immagine, strappandola dal flusso continuo del video.

Adrian Paci Secondo Pasolini (Decameron) 2007

Adrian Paci, Secondo Pasolini (Decameron), 2007. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

Adrian Paci Secondo Pasolini (Decameron) 2007

Adrian Paci, Secondo Pasolini (Decameron), 2007. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

Edi Muka ha definito la tua arte una “trasposizione” di immagini da un medium a un altro: come in un’equazione matematica, trasferisci l’immagine sull’altro lato, cambiandone il segno di riconoscimento. L’idea di trasposizione rimanda a quella del passaggio, del viaggio e del transito. Non a caso, il titolo della tua retrospettiva al Jeu de Paume è Vies en transit: appositamente per la mostra hai realizzato il tuo ultimo video, The Column, che racconta la trasformazione di un blocco di marmo in una colonna all’interno di una nave che viaggia dalla Cina all’Europa. Anche il tema dell’immigrazione, al centro del tuo lavoro, ha a che fare con lo spostamento…

L’immigrazione, più che un tema, è per me un’esperienza di vita. M’interessa non tanto come argomento di attualità politica e sociale, ma come momento di passaggio di un’individualità da un contesto a un altro – un individuo che in questo passaggio mette in discussione se stesso così come il luogo in cui è diretto. E cerco di parlarne non attraverso concetti o forme astratte, ma nei fatti concreti, nei dettagli, nelle particolarità delle singole situazioni. Intesa in questo senso, l’immigrazione rappresenta, nella mia pratica, una delle possibili declinazioni del tema del passaggio e del transito. Se penso al mio lavoro, al rapporto tra video, fotografia, pittura e performance, ritrovo questa dimensione dello scorrere e della trasformazione: non cerco forme chiuse o definitive, piuttosto sono interessato alle loro relazioni reciproche. Il video The Column nasce da una storia raccontatami da un amico: la storia di una scultura che si può produrre in viaggio dalla Cina all’Europa, su una nave. Il video affronta le questioni del lavoro, della circolazione dei beni e delle idee, del rapporto tra Oriente e Occidente – il tutto collocato in un non-luogo e un non-tempo.

Adrian Paci The Column 2012

Adrian Paci, The Column, 2012. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

Molti tuoi lavori descrivono i riti e le tradizioni del tuo Paese, come volessi cristallizzare in un’immagine gesti e cerimoniali antichi. Che valore attribuisci al gesto, al passato e alla tradizione nella tua pratica?

Il gesto è una figura, una traccia. Nel gesto si cristallizzano tradizioni millenarie, per questo assume una valenza rituale. Penso alla stretta di mano in The Encounter e The Visitors, simbolo della necessità che ogni uomo ha di relazionarsi con l’altro. Come artista, io desidero celebrare questo gesto, renderne omaggio e problematizzarlo. A proposito della tradizione, trovo stupida l’idea della novità a tutti i costi, della sua celebrazione come un valore. Io stesso provengo dal fallimento di due modelli di novità: il mito comunista dell’uomo nuovo e quello capitalista del benessere, dell’uomo libero nell’epoca della società dei consumi. In seguito a questo duplice fallimento ho cominciato a cercare un nuovo modello di umanità, che si ricollegasse alla tradizione, non per una volontà di ritorno nostalgico al passato, ma per ritrovare qualcosa di essenziale, arcaico, originale – perciò prossimo all’uomo in qualsiasi tempo.

"Adrian Paci. Vies en transit", Jeu de Paume, Paris, 2013 Photographe : Romain Darnaud © Jeu de Paume

Adrian Paci, The Visitors, MAXXI, Rome, 2012.

Il tema dell’essere artista è al centro di alcuni tuoi lavori, come Believe me I am an artist e Piktori. Cosa significa per te essere un artista? Qual è il ruolo dell’arte nella società contemporanea?

Non mi sento un artista che ha compreso il suo ruolo nel mondo e lo proclama all’umanità; al contrario, faccio parte di quella categoria di artisti che non si stanca mai di cercare, di individuare una propria posizione. Credo che l’artista abbia una responsabilità verso l’arte, intesa come linguaggio – dunque verso le sue diverse espressioni come la pittura, la performance, il video – ogni volta che realizza un’opera. Inoltre, ha una responsabilità verso il mondo, le persone e la natura; senza tralasciare quella verso se stesso e la propria intimità. Il fare arte, per me, è un incessante interrogarsi: come dovrei comportarmi con il linguaggio, con me stesso, con gli altri, con il mondo?

In autunno, la tua retrospettiva di Parigi arriverà al PAC di Milano, e a settembre parteciperai alla Biennale di Tessalonica. Che progetti hai in mente per il futuro?

Adesso ho molta voglia di dipingere. Ho in mente diversi lavori, tra cui alcuni video. Non vedo l’ora di essere più libero e di frequentare lo studio ogni giorno, con assiduità. Vorrei avere più tempo per riflettere, in silenzio, senza troppe telefonate o e-mail!

Adrian Paci The line 2007

Adrian Paci, The line, 2007. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

"Adrian Paci. Vies en transit", Jeu de Paume, Paris, 2013 Photographe : Romain Darnaud © Jeu de Paume

Adrian Paci. Vies en transit, Jeu de Paume, Paris, 2013. Photo: Romain Darnaud © Jeu de Paume

Adrian Paci Apparizione 2001

Adrian Paci, Apparizione, 2001. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

Adrian Paci Secondo Pasolini 2010

Adrian Paci, Secondo Pasolini, 2010. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

Adrian Paci Centro di permanenza temporanea 2007

Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

Adrian Paci Albanian Stories 1997

Adrian Paci, Albanian Stories, 1997. Courtesy: Adrian Paci e Kaufmann Repetto, Milan.

"Adrian Paci. Vies en transit", Jeu de Paume, Paris, 2013 Photographe : Romain Darnaud © Jeu de Paume

Adrian Paci. Vies en transit, Jeu de Paume, Paris, 2013. Photo: Romain Darnaud © Jeu de Paume


Federico Florian

Storico dell’arte e aspirante scrittore, vive a Milano e ha un debole per l’arte contemporanea. Collabora con Arte e Critica e altre testate. Violinista e instancabile viaggiatore, ama la buona letteratura. Sogna una critica d’arte agile e fresca, e aspetta di scrivere il romanzo perfetto.


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