16 Dicembre 2014
Eclettico e irriverente, armato di un’ironia con cui ha sferzato duri attacchi alla società tedesca del secondo dopoguerra. Questo era Sigmar Polke, raccontato in tutta la sua carica sovversiva, estetica e politica, in una mostra personale alla Tate Modern di Londra, organizzata in collaborazione con il MoMA di New York. Per ripercorrere una produzione artistica intrecciata a una vita nomade, il percorso è cronologico: si esordisce con le opere attinenti al periodo del Realismo Capitalista, in cui celebra le false promesse del consumismo dei primi anni Sessanta, quel sentimento insaziabile che sradicò i tedeschi dal tragico passato nazista. Nei suoi dipinti abitano salsicce, barrette di cioccolato e ragazze in bikini, e domina uno stile pop ispirato alla pubblicità e ai quotidiani. Segue una feroce critica all’astrazione, complice di richiamarsi in modo irresponsabile alle avanguardie storiche e alle ideologie utopiche di inizio Novecento. Poi il colpo di scena: negli anni Settanta Polke lascia Düsseldorf, si trasferisce in campagna, in una comune, si dà alle droghe allucinogene e inizia a girare il mondo: da New York a San Paolo al Pakistan. Nasce così l’alchimista che sovrappone negativi, pigmenti tossici e tessuti kitsch di bassa qualità. “Il veleno si infiltrò nelle mie immagini”, disse. La corruzione, il male della società, si riflette nella tecnica e culmina nella serie degli imponenti dipinti dedicati alle Watchtower, le torri di controllo dei campi di concentramento o forse quelle del muro di Berlino. Polke le dipinge su una plastica protettiva tipo pluriball e aggiunge materiali fotosensibili sulla superficie traslucida. I dipinti scuriscono, e continueranno a scurire, soffocando la memoria e cancellando il dolore.