Ai Weiwei
“Internet è stato un miracolo”

24 Gennaio 2018

Ai Weiwei è un artista e attivista cinese, figlio di un poeta esiliato in Manciuria e costretto da Mao a pulire bagni invece che a scrivere poesie. Ha seguito le orme del padre, affidando all’arte il suo messaggio di dissidente e rifugiato politico. Un’arte che interroga identità e libertà nella società contemporanea, alla luce della sua esperienza di migrante, del peso del passato – la cultura materiale cinese – e delle sfide del presente. Un’arte che indaga uno spazio incerto, attraversato dalle spinte nazionalistiche e dalla globalizzazione. Ai Weiwei mette in scena, moltiplica, appropria, rivisita, distrugge e copia: tutto in chiave pop e senza regole, contro il politicamente corretto e l’adesione acritica a schemi prestabiliti. I media rispondono: puntano il dito, amplificano, raccontano meticolosamente i suoi 81 giorni di prigionia in una cella sorvegliata 24/7 nel 2011, il ritiro del passaporto per i successivi quattro anni, l’esilio a Berlino. Ai Weiwei produce di tutto e per tutti: blog, documentari, sculture, performance e fotografie. Nel 2010 ha riempito la Tate Modern con milioni di semi di girasole modellati a mano in porcellana, adesso il suo lavoro fotografico è in mostra al FOMU di Anversa – Mirror, fino al 18 febbraio. E con un’installazione dal titolo Good Fences Make Good Neighbors, dallo scorso ottobre ha inondato New York di gabbie e immagini di migranti, scatenando di nuovo fan e detrattori, perché nessun artista polarizza i giudizi quanto lui, sfidando flash e polemiche a colpi di selfie.

Ai Weiwei, Study of Prospective, 1995-2011, Tienanmen Square, Beijing, 1995.

Ai Weiwei, Study of Prospective, 1995-2011, Tienanmen Square, Beijing, 1995. Courtesy: Ai Weiwei Studio.

Da quando ha riavuto il passaporto dalle autorità cinesi ha visitato oltre quaranta campi profughi. Questi viaggi sono la base di numerosi progetti, fra cui il documentario Human Flow e l’installazione diffusa Good Fences Make Good Neighbors, che celebra i quarant’anni di attività del Public Art Fund a New York con la sua commissione più ambiziosa. Cosa l’ha ispirato?

Good Fences Make Good Neighbors rappresenta anni di lavoro concettuale e di vita alla luce della condizione politica contemporanea. Dopo la Guerra Fredda e la caduta del Muro di Berlino, è iniziato un processo di globalizzazione che ha portato libertà, cambi ai vertici politici e aperture dei confini – in molti casi. Oggi, però, ritroviamo chi costruisce muri e difende le frontiere. Di conseguenza, siamo disorientati. Di fatto ci sono due mappe, e non corrispondono tra loro. Le strutture di potere, gli interessi economici, politici e commerciali compongono una mappa; le frontiere, un’altra.

Come ha trasformato New York in un laboratorio di questa lotta globale di classi e poteri?

Anzitutto, va detto che è stato il Public Art Fund di New York a scegliermi. Come artista, non è una situazione ideale, ma New York è una città che amo, ho vissuto qui per più di dieci anni, dai ventiquattro ai trentasei. È una città di migranti: ognuno è arrivato qui da parti diverse, molti da bambini come rifugiati o immigrati, costretti a lasciare la loro patria per venire su quest’isola. Dunque, credo che sia il luogo perfetto per produrre una conversazione sui territori, i confini, la nazionalità, la propria identità e la “cultura mista”. Così ho sviluppato il progetto a partire dalla struttura stessa della città, si può dire che ho trattato New York come un ready-made. Ho considerato anche la cultura un ready-made, alla stregua della città, e sviluppato l’idea di lavorare con le infrastrutture, le strade, la metro, i pali della luce, le fermate degli autobus, i parchi pubblici, i monumenti, per rendere i cittadini coscienti della situazione, senza intromettermi nella loro quotidianità. Good Fences Make Good Neighbors non è una scultura in senso tradizionale. Volevo proporre qualcosa che facesse riflettere i cittadini sulla loro identità e lo spazio circostante.

Ai Weiwei, Arch, 2017. Courtesy: Ai Weiwei Studio / Frahm & Frahm. Foto: Jason Wyche, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Tra gabbie, cancelli e poster, il Public Art Fund ha contato trecento interventi site-specific. I grandi numeri ricorrono spesso come strumento metodologico del suo lavoro. Anche nella mostra personale al FOMU di Anversa, dove ha esposto 20.000 stampe fotografiche. Crede che nella nostra società globalizzata e disattenta l’arte debba rendersi sempre più visibile?

No, non credo. Per quanto mi riguarda, tutto nasce dall’esperienza e dallo studio della prospettiva – che mette sempre in relazione i singoli elementi con gli altri. Io relaziono me stesso agli altri, alla società, alla Cina, al mondo, ai rifugiati, all’umanità. Cerco sempre di costruire una prospettiva tra queste relazioni. Le persone si sentono schiacciate dalle dimensioni e dai numeri, ma è solo una questione di prospettiva. Dipende da come guardi le cose intorno a te. Osserviamo il mondo e lo interpretiamo con la nostra testa, ma questo non ha niente a che vedere con la verità oggettiva. La verità non è solo quella prodotta dall’intelletto umano. La verità, a volte, può essere insensibile, e molto lontana dalla nostra prospettiva sulle cose.

Al FOMU di Anversa ha deciso di mostrare – tra le numerose serie fotografiche – un’opera del 2007 intitolata Fairytale e prodotta per Documenta a Kassel. Sono 1.001 ritratti fotografici di cittadini cinesi cui ha offerto un viaggio per visitare la mostra. Che posizione ha la “favola” nella condizione umana contemporanea?

Già allora riflettevo sulla globalizzazione, quella della gente che proviene da luoghi diversi, con differenti storie politiche alle spalle. La Cina, i comunisti, non hanno nessuna esperienza dell’arte contemporanea. L’Occidente, con il suo liberalismo, ha inserito l’arte contemporanea nella struttura sociale. Ci sono conflitti e scontri tra questi due modelli di società. Ho pensato di mettere in scena tutto questo in un modo il più possibile pacifico, favolistico, per avvicinare i miei conterranei alla mostra – anche se naturalmente non avevano e non hanno le basi per comprendere Documenta. Dopotutto, anch’io non capisco molti dei lavori esposti a Documenta. Forse ci vuole una vita per capire cosa significhi ciò che non ha senso. In ogni caso, le favole producono sempre qualcosa di speciale, anche se sono irrealizzabili.

Ai Weiwei, Odyssey 3, 2017. Courtesy: Ai Weiwei. Foto: Timothy Schenck, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

I media insistono sul fatto che la sua arte sia una provocazione continua, pensata per far parlare di sé. Ritiene di essere stato frainteso o crede che un artista oggi debba sempre – in qualche misura – provocare per far riflettere il suo pubblico?

No, provocare non è mai stata una mia strategia. Sono molto lontano dalla provocazione.

In che misura l’esperienza di prigionia ha influenzato la sua posizione su arte e libertà?

La detenzione ha un peso relativo nel mio caso, anche perché è stata un’esperienza breve rispetto a quella vissuta da altri: persone che hanno perso la loro voce per sempre. Io ho vissuto un’altra storia rispetto a queste persone, di cui non sapremo mai nulla, né pensieri né fatti. Quello che ho capito è che tutti i dittatori che puntano sulla censura hanno paura della libertà. Limitare la libertà di un altro è tutto ciò che sanno fare per mantenere il loro potere. Altrimenti non lo avrebbero.

Ai Weiwei, Banner 112, 2017. Courtesy: Ai Weiwei. Foto: Jason Wyche, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Nella sua carriera ha usato uno spettro assai ampio di tecniche, format e linguaggi: dalla scultura alla fotografia, dal documentario al blog. Qual è la cornice – teorica o pratica – in cui sente di operare a tutti gli effetti come artista?

Per me, se non c’è un ampio spettro di possibilità, semplicemente non c’è arte. La mia visione dell’arte si traduce in un’esplorazione di queste possibilità, dal punto di vista estetico e morale.

Parlando di estetica e morale, quando un artista cessa di essere “Duchamp” e diventa “Snowden”? 

Entrambi osservano la superficie delle cose: lo fanno in tempi diversi e si concentrano su aspetti differenti, ma se li inquadri in una prospettiva etica o filosofica sono simili. Sono individui che hanno creato una possibilità per molti altri. Duchamp con il suo lavoro ha gettato nuove basi per tutti gli artisti – che dopo di lui hanno potuto spingersi in ogni direzione. Snowden ha fornito una prova importante sulla sorveglianza esercitata dalle autorità governative nei confronti dei cittadini. Una rivelazione epocale. Si merita un premio Nobel, più di chiunque altro.

Qual è la sua missione, Ai Weiwei?

Finire questa tazza di tè, parlare con un altro giornalista e spiegare pazientemente la mia situazione. Mi sono reso conto che ho bisogno di spiegare bene la mia condizione e quello che faccio. Ogni mia azione, anche la più normale, è considerata una provocazione, e questo non va bene.

Ai Weiwei, Circle Fence, 2017. Courtesy: Ai Weiwei. Foto: Timothy Schenck, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Se un’azione “normale” è giudicata una provocazione, a prescindere, quale spazio ci resta?

L’unico campo d’azione possibile è nella sfera individuale. Ognuno di noi deve rispettare la natura, le altre persone, e stare molto attento alla struttura politica in cui vive e opera.

Crede che oggi Internet sia lo strumento più potente che l’individuo ha per passare all’azione?

Internet è stato un miracolo. Ha dato all’individuo il potere e le risorse per essere indipendente. In passato, tutto dipendeva dalla propria classe di appartenenza, dalla famiglia, dalle possibilità economiche, che a loro volta determinavano relazioni, conoscenza e capacità di agire. Grazie a Internet, l’individuo ha avuto a disposizione gli strumenti per farsi ascoltare, operare, compiere delle scelte – al di là delle condizioni socio-economiche di partenza.

Che ruolo gioca il selfie in questo nuovo mondo?

Nessun ruolo, è solo spettacolo. Vogliamo essere presenti, vivi. E vogliamo dimostrare di essere vivi.

Ai Weiwei, Circle Fence, 2017. Courtesy: Ai Weiwei. Foto: Timothy Schenck, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Ai Weiwei, Exodus, 2017. Courtesy: Ai Weiwei. Foto: Ai Weiwei Studio, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Ai Weiwei, Five Fences, 2017. Courtesy: Ai Weiwei. Foto: Jason Wyche, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Ai Weiwei, Brooklyn Shelter 4, 2017; Good Neighbors 17, 2017; Good Neighbors 12, 2017. Courtesy: Ai Weiwei Studio / Frahm & Frahm. Foto: Jason Wyche, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Ai Weiwei, Bowery Fence, 2017. Courtesy: Ai Weiwei. Foto: Timothy Schenck, courtesy Public Art Fund, NY. In Good Fences Make Good Neighbors, presentata da Public Art Fund, New York, 12 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018.

Ai Weiwei, National Stadium, 2005-2008.

Ai Weiwei, National Stadium, 2005-2008. Courtesy: Ai Weiwei Studio.

Ai Weiwei, Illumination, 2009.

Ai Weiwei, Illumination, 2009. Courtesy: Ai Weiwei Studio.

Ai WeiWei, Mirror, FOMU, Antwerp, 2017.

Ai Weiwei, Mirror, FOMU, Anversa, 2017. Foto: Guy Voet.

Ai WeiWei, Mirror, FOMU, Antwerp, 2017.

Ai Weiwei, Mirror, FOMU, Anversa, 2017. Foto: Guy Voet.

Ai WeiWei, Mirror, FOMU, Antwerp, 2017.

Ai Weiwei, Mirror, FOMU, Anversa, 2017. Foto: Guy Voet.

Ai WeiWei, Mirror, FOMU, Antwerp, 2017.

Ai Weiwei, Mirror, FOMU, Anversa, 2017. Foto: Guy Voet.

Ai WeiWei, Mirror, FOMU, Antwerp, 2017.

Ai Weiwei, Mirror, FOMU, Anversa, 2017. Foto: Guy Voet.

Ai WeiWei, Mirror, FOMU, Antwerp, 2017.

Ai Weiwei, Mirror, FOMU, Anversa, 2017. Foto: Guy Voet.


Sara Dolfi Agostini

Curatrice e giornalista, vive tra l’Italia e gli Stati Uniti, ma spesso cambia rotta per visitare musei, biennali e studi d’artista. Specializzata in arte contemporanea e fotografia, è consulente scientifica della Triennale di Milano. Inoltre, ha co-curato il progetto di arte pubblica ArtLine Milano e scritto il libro Collezionare Fotografia (2010, con Denis Curti). Collabora con Il Sole 24 Ore dal 2008.


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