27 Ottobre 2016
In principio fu il cinema, e per anni l’avventura umana e professionale di Marcio Kogan ha oscillato tra architettura e grande schermo. A farlo pendere per la prima, più che i successi progettuali sono stati i postumi economici del suo primo lungometraggio. Poco male: il provvidenziale fallimento cinematografico ci ha regalato uno degli architetti più interessanti e influenti della sua generazione. Kogan è il fondatore dello studio mk27 di San Paolo, la metropoli brasiliana nella quale è nato nel 1952 e continua a fare base nonostante lavori ormai in tutto il mondo. La sua architettura è sperimentale, ma non senza riferimenti ai progettisti del glorioso passato del suo Paese. Cita spesso Oscar Niemeyer, il maestro indiscusso del Modernismo brasiliano, ma con il suo stile rende omaggio anche a un’altra celebre compatriota, l’architetto di origine italiana Lina Bo Bardi. I progetti dello studio mk27, apprezzati per i loro volumi puri e la semplicità sempre attenta a dettagli e finiture, hanno il difficile compito di ripensare e dare continuità alla tradizione architettonica brasiliana. Membro onorario dell’AIA (l’American Institute of Architects), premiato con più di duecento riconoscimenti nazionali ed internazionali, Kogan ha rappresentato il Brasile alla Biennale di Venezia 2012, ed è stato inserito tra le “100 persone brasiliane più influenti” dalla rivista Época. A 64 anni continua a dare espressione progettuale alla sua creatività insieme ai venti architetti dello studio, che stimola a essere “connessi costantemente con tutto ciò che ci circonda”. Oltre a un’invidiabile abilità nell’affrontare difficoltà e fallimenti, quest’intervista rivela la sua consapevolezza per i traguardi raggiunti e per il ruolo dell’architetto nel presente e nel futuro delle nostre società. Marcio Kogan è una personalità visionaria con l’ossessione per eleganza, ma se gli chiedi di definirsi si descrive come “un uomo pieno di paure, umile, che porta gli occhiali e ama l’Italia”. Specialmente un certo tipo di cotoletta…
Come si diventa Marcio Kogan?
La ricetta è facile: si trovano un padre di nome Aron e una madre di nome Judith.
A parte gli scherzi, quale è oggi per te il senso dell’architettura?
Mi viene in mente una frase di Oscar Niemeyer: “Dobbiamo sognare, altrimenti le cose non succedono”.
Qual è stato il momento “sliding doors” della tua vita, l’attimo o l’episodio che ha cambiato direzione alla tua carriera?
A sedici anni ero uno studente terribile perché pensavo solo a girovagare per le strade di San Paolo. Un giorno ha cominciato a piovere e mi sono riparato in un cinema dove ho visto il film che ha cambiato la mia vita: Il Silenzio di Ingmar Bergman. Ho rivisto me stesso nel ragazzo Johan, e lì ho capito l’importanza dell’arte nella nostra vita. Mi sono identificato con il bianco e nero, con il senso di solitudine, con l’angoscia e i suoi fantasmi, e con la mia vita, che è cambiata dal momento in cui ho lasciato quel cinema.
Ci sono state altre svolte dopo quel film?
Sì. Per esempio, quando frequentavo la scuola di architettura dell’Università presbiteriana Mackenzie di San Paolo subivo una fortissima fascinazione per il “modernismo hippie”, trascurando il Modernismo brasiliano e la Scuola Paulista che andavano per la maggiore. Ma il giorno dopo la laurea mi resi conto che, al di là delle preferenze teoriche e culturali, io di architettura reale non sapevo nulla. E questa consapevolezza si è rivelata molto importante.
Che ruolo ha avuto il cinema nella tua vita professionale?
Fino al 1988, quando ho diretto il mio primo film, ero indeciso se essere architetto o regista. Avevo alle spalle una carriera promettente come produttore di 13 cortometraggi, ma il mio primo lungometraggio fu un fallimento assoluto, che mandò in fumo tutti i miei risparmi e lo studio di architettura che avevo appena fondato. Da allora, sono ripartito da zero, concentrandomi esclusivamente sull’architettura. Superato il trauma, penso che sia stato uno stop provvidenziale, e penso anche che la mia carriera attuale debba molto al mio bagaglio di cineasta.
E da architetto, qual è stato il momento della svolta?
Alcuni progetti come la casa Gama Issa del 2001 mi hanno aiutato a superare momenti difficili e consolidare la mia posizione.
Hai qualche rimpianto a questo punto della tua carriera? Qualcosa che avresti voluto fare diversamente?
Credo di non avere rimpianti. Penso a me stesso come a un mulo che tira il suo carretto senza mai voltarsi indietro.
Il designer britannico Jasper Morrison una volta ha detto che “quando gli oggetti vengono disegnati dovrebbero essere migliori di quelli già esistenti. Non è sempre facile o possibile, ma bisogna provarci”. Condividi?
Certamente. Penso che sia stato fatto già tutto, e che non ci sia più spazio per chi sogna la rivoluzione a ogni costo.
Dal momento che tutto sembra essere già stato disegnato e costruito, quali sono le sfide con cui preferisci confrontarti?
Mi piace l’idea di migliorare e cambiare le cose con semplicità, gentilezza ed eleganza.
Hai citato Oscar Niemeyer, il celebre architetto brasiliano che dovette pagare un prezzo molto alto per le sue posizioni politiche. Come hanno influenzato il tuo lavoro (e la tua vita) le tue scelte politiche? Quanto sono importanti i rapporti politici per fare architettura oggi?
Penso che per un architetto sia fondamentale essere connesso con il mondo che lo circonda, sia esso una sfilata di Hussein Chalayan o i più agguerriti movimenti politici e sociali. Niemeyer era solito dire: “Più importante dell’architettura è l’essere sintonizzati con il mondo”. Qualche tempo fa ho postato su Instagram un testo sul processo di impeachment alla ex presidente Dilma Rousseff, che ha avuto moltissime reazioni. Metà dei commenti erano entusiasti, l’altra metà erano minacce di tutti i tipi: dai clienti che dicevano che non avrebbero mai più lavorato con me, a certi follower che mi hanno consigliato di andare a costruire case a Cuba. Dopo quattordici anni di governo orientato a sinistra, con posizioni molto bilanciate, è cresciuta una generazione orientata decisamente a destra. Perfino nel mio studio questa storia non è passata senza provocare scontri, ma da ex ragazzo ribelle la cosa non mi dispiace affatto!
Nell’architettura di oggi, cosa ti sembra più estemporaneo e cosa può invece aspirare a durare?
Non mi piace chi tenta di innovare per il gusto di farlo, senza riferimenti profondi, ma con pure operazioni “di facciata”. Ci sono molte cose buone, ovviamente, ma molte altre mi ricordano il Postmodernismo, che ha lasciato un’eredità di macerie.
Come affronti le sconfitte?
Sono ossessionato dalla perfezione. È un difetto del quale mi faccio carico con una certa pena. Di fronte a un progetto compiuto, non sono mai riuscito ad amare nella sua interezza quel che avevo fatto. Non ho mai detto: wow, fantastico! Guardo solo quello che poteva essere fatto meglio. Se un mio progetto dovesse mai creare un grosso problema, cadrei in depressione. Ma ne verrei fuori venendo a Milano a mangiarmi una di quelle vostre meravigliose cotolette.
Qual è il tuo “playground”?
La mia vita o forse le nostre vite: con scivoli, altalene, tappeti elastici, giostre, dondoli e piccole case da costruire.
Che rapporti hai con i tuoi lavori passati? E con quelli futuri?
L’architettura è una professione molto difficile, specialmente a inizio carriera. Quando penso ai miei esordi mi viene la nausea. Ma è anche un lavoro da formiche, costruito granello dopo granello, in un processo costante di apprendimento. È una lunga corsa e mi piace! Poi, per il futuro voglio solo sopravvivere e continuare umilmente a “spingere il carretto”. Mi rifaccio nuovamente a Niemeyer, che diceva: “La vita è una brezza”.
Cos’ha la tua architettura di unico e diverso rispetto a quella dei tuoi contemporanei?
Non penso sia diversa, è solo un piccolo pezzo di vetro in un grande caleidoscopio.
Ho già rivolto questa domanda ad altri architetti, e vorrei sapere come la pensi tu, anche perché ti coinvolge direttamente: che ruolo avranno i mercati emergenti – Cina, India, ma anche Brasile – nel futuro dell’architettura?
Sono sempre stato ottimista sul Brasile, e penso che continuerà a essere un grande Paese e un mercato enorme. Il Paese è ricco e vasto, e la gente si accalca negli autobus dalle prime ore del mattino per andare a lavorare e migliorare la propria esistenza. Ma se leggi i giornali, viene da disperarsi. In questo paese i politici hanno attuato una delle più grandi rapine della storia dell’umanità.
Cosa ti tocca di più? Quand’è che l’architettura ti commuove?
L’architettura deve commuoverti, punto!
Quali sono gli ostacoli che trovi nel fare architettura oggi?
Il mio studio ha progetti in diversi Paesi, ognuno con le sue peculiarità. Negli Stati Uniti bisogna sottostare a regolamenti e mercato, e gli architetti non hanno vita semplice. In India, i nostri lavori sono controllati da un consulente di Vastu Shastra (un sistema tradizionale hindu di architettura, ndr). Ci sono luoghi, poi, dove è sempre più difficile farsi approvare i progetti dagli uffici pubblici. In Brasile stiamo affrontando una crisi terrificante che sta uccidendo l’architettura. In altre parole, le nostre vite non sono facili e almeno una volta all’anno si rischia l’infarto. A proposito, cancella la mia cotoletta alla milanese!
Cosa fa Marcio Kogan nel tempo libero?
Nonostante consideri la storia del cinema conclusa il 31 ottobre 1993, il giorno in cui è morto Federico Fellini, continuo ad andare a vedere i film.
Hai qualche hobby o passione?
La mia passione è vivere, e riuscire a mangiare la cotoletta che ho “cancellato” poco fa.
È impossibile non riconoscere una certa coerenza nei tuoi progetti, ma a proporre sempre gli stessi archetipi non si corre il rischio di cadere in una certa ripetitività?
Ne sono consapevole e, con grande sforzo intellettuale, noi di mk27 abbiamo modificato il nostro approccio progettuale per trovare nuove espressioni. A inizio carriera è difficilissimo raggiungere risultati di valore. Ma una volta affermati, ti si presenta un altro problema: arriva un cliente e chiede una casa che hai già fatto. Attualmente, questo è uno dei nostri spettri.
C’è un tipo di architettura che, a tuo giudizio, esprime meglio lo spirito del nostro tempo?
Tutti i progetti che io chiamo “istrionici”. Qui in Brasile l’anno scorso è mancato l’architetto messicano-brasiliano Aurélio Martinez Flores. Aveva 86 anni, è stato il mio professore preferito e l’architetto più elegante che io abbia mai conosciuto. Eppure la stampa locale non gli ha dedicato nemmeno una riga. Mi sono chiesto perché, e l’unica risposta che mi sono dato è la seguente: è la fine dell’eleganza. L’eleganza non importa più a nessuno, non ha più alcun significato.
C’è un tuo progetto che consideri importante, ma che non è stato ancora realizzato?
Come ogni studio di architettura, abbiamo uno stock di progetti non realizzati, che molte volte sono anche migliori di quelli costruiti. Ma non ci voglio pensare. Quando una cosa non deve succedere, non succede. È il destino.
A questo punto della tua carriera, il tuo lavoro ti stimola ancora?
Sì. Vorrei essere come Oscar Niemeyer, che a 104 anni, mentre stava per morire nel letto di un ospedale di Rio de Janeiro, era preoccupato di non poter tornare in ufficio perché aveva ancora un bel po’ di progetti da completare.
Come definiresti il tuo lavoro? Puoi provare a darne una definizione quanto più definitiva possibile?
Non mi piace parlare del mio lavoro. Ci convivo giorno e notte, e non so più cosa sia. So solo che ho una visione umile e leggermente timorosa di tutto quello che faccio.