23 Maggio 2018
Lo studio di Herzog & de Meuron è composto da pochi edifici bassi con al centro uno spiazzo centrale che funge da piazzetta interna, un piccolo isolato stretto fra il Reno e una delle antiche porte di Basilea, St. Johanns-Tor. La semplice sala caffè, con un tavolo in legno grande e spartano su cui campeggia qualche fetta di Basler Brot (il pane locale), prelude a un piccolo giardino e alla casa tradizionale col ripido tetto a spiovente dove lavorano i due fondatori dello studio insieme con i loro più stretti collaboratori, in ampie stanze dove spiccano le opere di Rémy Zaugg, amico di lunga data scomparso nel 2005. Il complesso è dunque un frammento di città in cui si può cogliere tutta la sua varietà semplicemente attraversandolo. Verrebbe spontaneo definirlo un “fatto urbano”, vista la rilevanza che ricopre lo studio fondato esattamente quarant’anni or sono. Domani, 24 maggio, Jacques Herzog terrà una lecture presso la Fondazione Feltrinelli, il primo edificio milanese da lui progettato e realizzato, per il ciclo About a City. Places, Ideas and Rights for 2030 Citizens, sulle trasformazioni urbane e della cittadinanza.
Partiamo dalla lecture.
Porterò alcuni esempi concreti di città in trasformazione. Oggi si fa un gran parlare di digitalizzazione e smart city, ma francamente non credo che la rivoluzione digitale avrà un forte impatto sull’architettura. Le nostre città sono ancora molto simili a come erano in passato. L’architettura non è una disciplina digitale. Di più: la città è l’esatto opposto del digitale. La dimensione fisica è essenziale, i materiali hanno una loro sensualità, pensiamo solo alle città italiane. Possiamo usare la tecnologia per controllare e migliorare il traffico e questo può portare a certe modificazioni, ma il motivo per cui ci piacciono le città è il loro carattere arcaico. Certo, tutto cambierebbe nel momento in cui decidessimo di diventare dei cyborg, allora sì che la smart city avrebbe un senso, ma fino a quel momento la città resterà legata indissolubilmente alla condizione umana.
Nei primi anni Settanta, quando frequentava il Politecnico di Zurigo, l’ETH, lei e Pierre de Meuron seguivate le lezioni del gastdozent Aldo Rossi, autore fin troppo citato per commentare il vostro lavoro, anche nel caso della Fondazione Feltrinelli. Sebbene abbiate sempre rimarcato la vostra ammirazione per lui, apparentemente non c’è nessuna relazione formale fra la sua e la vostra architettura. Come spiega dunque questo legame?
Aldo è stato molto importante per lo studio della natura e della storia delle città, ma come architetti siamo molto differenti: lui era interessato soprattutto agli aspetti formali, in particolare a determinate forme – come il triangolo, per esempio, così ricorrente nei suoi progetti – mentre per noi è essenziale soddisfare innanzitutto i bisogni umani primari, poi viene la forma finale del progetto.
Eppure un riferimento formale preciso a Rossi c’è anche nella Fondazione Feltrinelli, ed è lo stacco netto fra i due corpi dell’edificio che richiama esattamente quello del Gallaratese.
Conosco molto bene il progetto del Gallaratese, l’abbiamo visitato insieme con Rossi a suo tempo, e anche più di recente dopo una ristrutturazione, ma si tratta di un complesso isolato rispetto al contesto, non ha nessuna relazione con lo spazio circostante. E questo per me è incredibile. Sembra un quadro di Giorgio de Chirico realizzato in tre dimensioni, non un progetto di architettura. Noi invece abbiamo fatto l’esatto opposto con la Fondazione, compreso l’uso esteso della trasparenza per facilitare il più possibile lo scambio fra i vari ambienti dell’edificio e la città che lo circonda.
Marco De Michelis sostiene che siete gli architetti più radicali, nel senso che siete capaci di affrontare un progetto esaminandone a tal punto il problema da farlo diventare la soluzione. È così, se penso per esempio al centro di riabilitazione di Basilea (1999-2002): si rivolge a persone con difficoltà motorie e per questo è stato sviluppato su un solo piano. Secondo me, però, vi preoccupate anche di evitare una vostra cifra stilistica, senza tuttavia cadere, al contrario, nell’eclettismo. Come nella poesia di Edoardo Sanguineti: “Oggi il mio stile è non avere stile”.
Non ci interessano gli esercizi di stile, questo è certo, e progettiamo sempre con la massima attenzione poiché nel momento in cui una soluzione viene realizzata non può più essere corretta. Quando posiamo una pietra deve sembrare che si trovi in quel posto da sempre. È una questione di equilibrio (si alza in piedi su una gamba sola, nda). Ogni volta cerchiamo un punto di equilibrio stabile, ma non si parte mai dalla stessa posizione. In ogni caso, bisogna progettare per le persone e non inseguendo preoccupazioni formali. Il comportamento delle persone in un grande edificio pubblico non è molto diverso da quello degli insetti.
È un’affermazione piuttosto cinica.
Ma no, perché? Intendo dire che le persone, analogamente agli insetti, con i loro movimenti determinano il destino di una città, al di là di qualsiasi programmazione. Per questo siamo contrari alle forme imposte a priori. Gli architetti hanno sempre progettato forme pure, città ideali come espressione di un potere costituito, ma la realtà, al contrario, è fatta di tante piccole alterazioni di quel disegno ideale, è costituita dai batteri o dagli insetti che determinano l’alterazione e il crollo di quel disegno ideale originario. Non sono cinico: per me gli insetti non corrispondono alle persone, ma rappresentano l’immagine del costante lavorio che anima la città reale.
Lei è uno degli autori del libro The Inevitable Specificity of Cities1, curato dallo Studio Basel dell’ETH distaccato a Basilea, dedicato alla peculiarità delle città: una profonda confutazione della città generica di Rem Koolhaas2. Eppure, persino Giacomo Leopardi nello Zibaldone, scritto due secoli or sono, notava come le città più sono grandi e più hanno problemi e funzioni simili.
Questo però non è più vero oggi. Le città, anche le più grandi come Berlino, Parigi, Londra, sono profondamente diverse tra loro. Le differenze sono aumentate di molto nel tempo. Anche se tutte ospitano catene di grandi brand planetari, come Starbucks o McDonald’s, la vita di ogni giorno le diversifica, a livello superficiale e sostanziale. Pensi alle città romane di fondazione, quelle sì che erano pensate e realizzate allo stesso modo con il cardo, il decumano, il foro e una medesima tecnologia. Eppure, nel corso dei secoli si sono tutte differenziate enormemente grazie all’impatto con l’esperienza quotidiana, con la vita. Certo, quel libro è una confutazione del saggio di Rem, che trovo totalmente superato: un sogno sbagliato e il contrario della città ideale. Abbiamo pubblicato il libro non per fare polemica con lui né perché io o i miei colleghi nutriamo una visione romantica o peggio ancora nostalgica della città, ma perché gli esempi che abbiamo portato ci sembravano dimostrare questa idea fondamentale. La specificità delle città è il risultato di un’osservazione, non un desiderio. Prenda Milano: oggi è un polo di attrazione per tutte le altre città italiane, lì convergono le migliori energie, ma non va bene, non è salutare, sarebbe molto meglio avere uno sviluppo più armonico di tutte le città con tutte le loro differenze. Anche in Svizzera Basilea gode di ottima salute ed è ormai da tempo una città internazionale, ma non vorrei che diventasse il punto di riferimento per tutto il Paese.
Il vostro studio ha avuto la fortuna di realizzare decine e decine di progetti nella propria città, Basilea, studiandola a fondo, elaborando anche proposte di pianificazione urbana e partecipando attivamente alla discussione pubblica sui giornali e con varie pubblicazioni3. In particolare, lei insiste molto sulla necessità di densificare le sponde del Reno, la vostra nuova torre Roche – terminata nel 2015, attualmente l’edificio più alto di tutta la Svizzera – esprime anche simbolicamente questa idea. Può spiegarmi per quali ragioni?
Sono convinto che Basilea debba densificarsi seguendo la topografia4, che qui è determinata dal Reno. Bisogna sfruttare di più la prossimità con il fiume. Quando si prende un’immagine in prospettiva della città, il fiume ci appare bello se gli edifici gli sono vicini. Inoltre, il suo andamento curvilineo fa sì che ogni punto di vista lungo il suo percorso sia differente. Va poi considerato che la valle renana è particolarmente ampia, anzi è unica in tutta la Svizzera, e tutto questo determina la specificità di Basilea. Qui abbiamo molti vantaggi rispetto a Zurigo perché siamo molto più legati, anche visivamente, al territorio. A volte mi accusano di odiare Zurigo, ma non è vero, ci ho abitato da giovane, ha un paesaggio lacustre unico, però è una città troppo svizzera e la sua architettura recente è mediocre, non ci sono posizioni radicali, non mi tocca proprio.
Nella vostra lunga carriera avete collaborato spesso con alcuni dei maggiori fotografi internazionali, tutti legati alla cultura tedesca: penso a Thomas Ruff, autore dei celebri scatti della Goetz Collection (1994), e a Jeff Wall, che ha fotografato la Cantina Dominus nella Napa Valley nel 1999 per conto del Canadian Centre for Architecture (CCA), con il quale ha persino pubblicato un piccolo libro5. Inoltre, per discutere dei vostri progetti scegliete spesso come interlocutore Jean-François Chevrier, che è fra i massimi critici di fotografia. Qual è il momento che intendete fissare con la fotografia? Il processo di costruzione, la sua inaugurazione oppure la vita che si impossessa dell’edificio dopo alcuni anni?
I fotografi sono molto interessanti, il loro sguardo sul progetto è sempre originale, spesso il migliore. Credo che lo spazio architettonico non si possa esprimere attraverso la fotografia tradizionale. Andreas Gursky o Jeff Wall usano la fotografia come se fosse pittura e questo è ciò che amiamo di più. Non mostrano un edificio, rappresentano qualcos’altro, uno spazio autonomo dal punto di vista espressivo.
L’architettura del resto non si può propriamente esporre, va vissuta. Costantino Dardi ha scritto che “l’architettura non si rappresenta: l’architettura si presenta, l’architettura è”.
Sì, sono d’accordo. Con le fotografie del nostro lavoro abbiamo creato una collezione di documenti. Nel 1995 al Centre Pompidou di Parigi abbiamo fatto una mostra dei nostri progetti completamente piatta, così come alla nostra prima Biennale6: solo fotografie e materiali esposti su lunghi tavoli simili a quelli da lettura nelle biblioteche. La fotografia della mostra che ne ha tratto Gursky, invece, è un’opera d’arte da appendere al muro.
Ho avuto la fortuna di visitare il vostro archivio ospitato in un edificio che ricorda vagamente la Torre Velasca, sulla Helsinki-Strasse a Dreispitz, un quartiere industriale molto interessante di cui so che state curando la pianificazione insieme con la municipalità. Nell’archivio, oltre ai modelli, sono conservate tutte le varianti di progetto: frammenti e prove in diversi materiali che mostrano un grande lavoro collettivo alla ricerca di soluzioni che sono archiviate, ma che possono improvvisamente tornare d’attualità. Tanto più il progetto è recente, tanto più sono le varianti. Intendo dire che non avevo l’impressione di essere in un archivio-museo, ma in un’opera aperta con ancora molte soluzioni potenzialmente disponibili – per esempio, lo sviluppo in verticale del progetto per l’estensione del Küppersmühle a Duisburg torna ora, forse, nei nuovi progetti per Mosca. In generale, però, l’impressione è quella che abbiate subito un’evoluzione progettuale: dalla ricerca della precisione estrema dei primi progetti, come la casa in pietra ligure a Tavole (1985-1988), in cui tutto si trova dove deve essere e nulla si può spostare, fino alla Filarmonica di Amburgo (2006-2016), dove invece i muri, le lunghe scalinate interne, i terrazzamenti sembrano molto più arbitrari e a volte disposti in modo aleatorio. Anche nell’edificio dell’archivio, bevendo un caffè sul ballatoio esterno, ho notato una certa insofferenza verso la linea retta. Mi è venuta in mente quella frase ambigua di Aldo Rossi: “È duro accettare la propria maturità e certe volte mi sembra di ribellarmi”7.
Sì, credo che la casa in Liguria sia un piccolo manifesto in termini di rigore progettuale, allora avevamo la necessità di dimostrare in modo netto in quale direzione andare. Oggi lo studio e la scala dei progetti si sono ingranditi e logicamente anche le possibilità. Adesso mi interessa molto di più la percezione che si può avere di un progetto. Per esempio, sia il negozio Prada a Tokyo (2001-2003) sia l’allestimento per la recente sfilata di New York hanno a che vedere con il vetro e la sua lavorazione: a Tokyo è distorto, mentre a New York lo abbiamo semplicemente colorato di rosso per offrire una forte scenografia urbana al défilé. Da tempo mi rifiuto completamente di pensare a priori un progetto.
Sul tema del vetro e i suoi possibili riflessi avete di recente pubblicato un libro8 dove abbondano i riferimenti sia ad architetti (Bruno Taut, Ivan Leonidov, Ludwig Mies van der Rohe) sia ad artisti (Marcel Duchamp, Dan Graham, Gerhard Richter) che apprezzate particolarmente. E parlando di influenze, potremmo ricordare i grandi autori, di Basilea o che vi hanno lavorato, indicati da voi come maestri a più riprese nel corso degli anni: Rudolf Steiner, Karl Moser, Michael Alder o Lucius Burckhardt. Onestamente faccio fatica a vedere tutte queste influenze nel vostro lavoro. Per esempio, il Goetheanum sembra fatto con le mani, mentre nessuno dei vostri progetti dà questa impressione, anche se è vero che retrospettivamente l’influenza di Burckhardt è più leggibile, per il suo interesse verso l’arte.
Beh, Lucius è stato sicuramente un maestro, l’ho conosciuto molto bene non solo perché viene da un’antica famiglia di Basilea (la stessa dello storico Jacob), ma perché prendevamo lo stesso treno per andare a Zurigo dov’era mio professore all’ETH, anche se all’epoca non era per niente interessato all’arte. In realtà, odio le influenze, non mi piace essere influenzato, ma non posso nemmeno evitare di dire chi ha ispirato il mio lavoro. Spesso non leggo nemmeno alcuni libri, per paura di esserne condizionato. Però mi piace guardarmi intorno, perché penso che da tutto si possa imparare qualcosa e non solo da ciò che è considerato un caposaldo della cultura progettuale. Faccio sempre infuriare il mio amico Peter Eisenman quando affermo che i due grandi libri del 1966, Complessità e contraddizione in architettura di Robert Venturi e L’architettura della città di Aldo Rossi, oggi sono irrilevanti per i giovani poiché le città sono troppo complesse per aderire a una teoria in modo stabile e continuato. E qui torniamo al punto di prima: sono gli insetti, le persone, a rappresentare il destino della città.
Note
1 ETH Studio Basel (ed.), The Inevitable Specificity of Cities. Napoli, Nile Valley, Belgrade, Nairobi, Hong Kong, Canary Islands, Beirut, Casablanca, Lars Müller, Zurich, 2015. Gli autori dei singoli saggi sono Roger Diener, Jacques Herzog, Marcel Meili, Pierre de Meuron, Manuel Herz, Christian Schmid e Milica Topalović.
2 Rem Koolhaas, La città generica, in Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata, 2006, pp. 25-59.
3 Jean-François Chevrier, in cooperation with Élia Pijollet, From Basel. Herzog & de Meuron, Birkhäuser, Basel, 2016.
4 La topografia in architettura è un tema che Rossi affrontò a più riprese nei suoi corsi all’ETH, sull’onda dei suoi studi sull’Illuminismo. La prima carta topografica svizzera compare sullo sfondo de La città analoga (1976), e anche le prime due illustrazioni de L’architettura della città (1966) erano due vedute di Rudolf Dikenmann del lago di Zurigo e del ponte del diavolo sul passo del Gottardo (la veduta del lago è stata usata anche come copertina dell’edizione tedesca del libro, Die Architektur der Stadt: Skizzen zu einer grundlegenden Theorie des Urbanen, Bertelsmann, Düsseldorf, 1973).
5 Pictures of Architecture, Architecture of Pictures. A Conversation between Jacques Herzog and Jeff Wall; moderated by Philip Ursprung, Wien-New York, Springer 2004; trad. it. Immagini d’architettura. Architettura d’immagini. Conversazione tra Jacques Herzog e Jeff Wall, a cura di Cristina Bechtler, Postmedia Books, Milano, 2005.
6 Architektur von Herzog & de Meuron, fotografiert von Margherita Krischanitz, Balthasar Burkhard, Hannah Villiger und Thomas Ruff, Lars Müller, Baden, 1991.
7 Aldo Rossi, Lettera alla madre, 9 maggio 1966, riportata in Beatrice Lampariello, Aldo Rossi e le forme del razionalismo esaltato. Dai progetti scolastici alla “città analoga”, 1950-1973, Quodlibet, Macerata, 2017, p. 220.
8 Jacques Herzog, Pierre de Meuron, Treacherous Transparencies. Thoughts and Observations Triggered by a Visit to the Farnsworth House, Actar, New York, 2016. I testi sono di Herzog e le fotografie della casa di de Meuron.