Cino Zucchi
Collezionare esperienze

21 Luglio 2014

Cino Zucchi (milanese, classe 1955) ama da sempre confrontarsi con le scale e gli ambiti più diversi della progettazione: dall’urbanistica agli edifici residenziali, dai parchi alle chiese, fino alla recente incursione nel mondo del design con Artemide – senza dimenticare la curatela del Padiglione Italia per la Biennale di Architettura di Venezia, ancora in corso. Tra gli architetti della sua generazione, è uno dei pochi che all’impegno accademico (è docente al Politecnico di Milano) ha saputo unire una notevole capacità di cantiere, con una lunghissima serie di progetti realizzati in Italia e all’estero. Eppure, chi lo conosce sa che l’architettura non esaurisce l’intera gamma dei suoi interessi. Zucchi è un grande conversatore, dotato di sottile ironia, amante delle citazioni, appassionato di musica e pittura, incuriosito dalle storie cosiddette minori e dai personaggi marginali, ma capaci di grande poesia. In fondo, Cino Zucchi è il collezionista per eccellenza. Lo è perché accumula storie e oggetti di ogni tipo, dai più colti ai più bizzarri: libri, pupazzi, pitture e immagini scaricate da Internet si mescolano in una sorta di Merzbau che, come l’originale di Kurt Schwitters, presenta tante cose, ma descrive in primo luogo la personalità dell’autore.

Biennale di Venezia, Padiglione Italia, 2014.

Biennale di Venezia 2014. Padiglione Italia. Foto di Marina Caneve.

Cino, ti definisci architetto pop. Spiegalo meglio.

Il termine pop rimanda agli anni Sessanta, e per me rappresenta una sorta di imprinting giovanile. Da bambino, poco prima del Sessantotto, avevo la percezione che il mondo potesse davvero cambiare, si viveva una fase di grande sperimentalismo sociale e formale. Però pop per me vuol dire anche popolare, ossia che l’architettura, essendo necessariamente fruita da tutti, non può essere cerebrale o elitaria. Penso al film animato Cenerentola, un capolavoro che con il passare del tempo rivela tutta la sua raffinatezza, e al saggio scritto da Sergej Ėjzenštejn proprio su Walt Disney, del quale era un grande ammiratore. Tutto il secolo scorso è attraversato dal rapporto tra arte colta e arte di massa, e la Kultur tedesca guarda spesso con invidia alla vitalità e alla perfezione della musica e del cinema americano.

E così dall’architettura siamo già arrivati al cinema.

La cosa più bella l’ha scritta Walter Benjamin nel suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dicendo che il cinema e l’architettura sono le due arti di massa per eccellenza, perché possono essere entrambe percepite in uno stato di distrazione. Insomma, mi considero un architetto pop perché considero pop la disciplina in sé. Anche i miei gusti musicali sono in sintonia, e mentre lavoro ascolto solo musica leggera. Ogni momento della mia vita ha la sua canzone di sfondo, e credo che ai miei figli lascerò solo un numero imprecisato di CD di music indie canadese.

In una intervista hai detto: “Mi piace l’architettura che tollera il disordine della vita quotidiana”.

Ho molta ammirazione per lo studio SANAA, ma trovo che le loro architetture siano difficili se non impossibili da vivere. Se avessi sguinzagliato i miei quattro figli in una delle loro case, avrebbero attaccato adesivi dei Pokemon su tutte le finestre.

Biennale di Venezia, Padiglione Italia, 2014.

Biennale di Venezia 2014. Padiglione Italia. Foto di Marina Caneve.

E invece qual è il compito dell’architettura?

L’architettura dovrebbe essere come una scodella per la minestra, una sorta di contenitore della nostra vita liquida. Metà delle architetture che vediamo nelle riviste sono fotografate senza persone, come se queste ultime fossero solo parassiti che creano disordine. L’architettura non si esaurisce nel proprio programma funzionale, è di fatto un’invenzione che va immediatamente messa alla prova con le condizioni di esistenza che la rendono possibile. Non credo al social engineering: più che generare un nuovo stile di vita, l’architettura deve essere in grado di accoglierlo e amplificarlo. La vita è disordinata e l’architettura deve saperla tollerare e interpretare. Se vai a Chandigarh, il superomismo brutalista di Le Corbusier conserva la sua forza anche dopo tutte le trasformazioni spontanee provocate da chi ha vissuto quegli spazi negli ultimi sessant’anni.

In quali architetture d’autore svolgeresti le tue attività quotidiane?

Alcune architetture che ammiro da turista – penso a Gaudí, per esempio – sono spazi d’arte totali in cui non vivrei mai, perché sarebbe come abitare il cervello di un altro. Un po’ come succedeva in Viaggio allucinante, quel film di fantascienza del 1966 in cui un gruppo di persone miniaturizzate si introduceva nel corpo e nel cervello di un’altra persona.

Quali invece gli esempi positivi?

L’istituzione più civile e accogliente che abbia mai visitato è il Municipio di Aarhus di Arne Jacobsen. Lo vedi anche dai dettagli: sul pulsante dell’ascensore c’è scritto in danese: “Vuoi salire?” o “Vuoi scendere?”. Lo trovo commovente, perché rappresenta al meglio il rapporto tra istituzione e cittadino. Sempre per un certo amore per l’architettura nordica, vorrei morire ed essere sepolto nel Cimitero di Gunnar Asplund e Sigurd Lewerentz a Stoccolma, un posto magnifico dal punto di vista paesaggistico e architettonico. Sono un “cittadino”, amo la vita urbana, ma se dovessi scegliere una casa di campagna sarebbe sicuramente la Fisher House di Louis Kahn. Il museo più efficace invece è senz’altro il PAC di Ignazio Gardella a Milano. L’ho visitato per non so quante mostre, e tutte funzionavano alla perfezione, svelando qualità diverse degli spazi. Le architetture, come le persone, ci piacciono perché, pur avendo una propria identità, sono capaci di dialogare con noi. Infine, un arredo: la sedia Catilina di Luigi Caccia Dominioni, capace di dar forma alla nostra vita. Quando ti ci siedi ti senti un senatore romano, ti fa assumere una postura regale!

Catilina, design di Luigi Caccia Dominioni

Catilina, design di Luigi Caccia Dominioni per Azucena, 1957.

Durante gli anni di studio al Mit di Boston sei stato a contatto con Marvin Minsky, uno dei primi teorizzatori dell’intelligenza artificiale. Ti ha influenzato come architetto? Cito un brano della Società della mente, in cui Minsky utilizza una metafora achitettonica: “Nessuna storia lineare potrebbe mai descrivere una struttura vasta come la mente umana, così come non sarebbe possibile cogliere il carattere di una cattedrale, di una città o di una civiltà osservandone un solo aspetto o seguendo un solo itinerario”.

L’intelligenza artificiale più sofisticata – penso a Minsky e soprattutto a Douglas Hofstadter, un altro mio grande mito – si occupa dei processi cognitivi che non sono riassumibili in termini univoci.  Non si può pensare a un modello meccanicistico del cervello perché, per dirla con Minsky, quest’ultimo funziona come una rete plurisemantica. Permettimi una lunga citazione. Nel suo primo saggio, Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, Paul Valéry scrive: “Il monumento (che compone la Città, la quale costituisce quasi tutta la civiltà) è un essere così complesso che la nostra conoscenza vi vede in successione un decoro cangiante che fa parte del cielo, poi una ricchissima tessitura di motivi secondo l’altezza, la larghezza e la profondità; poi una cosa solida, resistente, indurita, con dei caratteri d’animale; infine una macchina dove il peso è l’agente, che conduce da nozioni geometriche a considerazioni dinamiche fino alle speculazioni più fini della fisica molecolare. È attraverso il monumento che noi ricomponiamo al meglio la chiarezza di un’intelligenza leonardesca. Essa può giocare a concepire le sensazioni future dell’uomo che farà il giro dell’edificio, vi si avvicinerà, raggiungerà una finestra, e quello che percepirà; a sentire gli sforzi contrapposti della carpenteria, le vibrazioni del vento che le percorrerà. Essa proverà e giudicherà lo sbalzo dell’architrave sui supporti, l’opportunità dell’arco, le difficoltà delle volte, le cascate di scale, e tutta l’invenzione che si conclude in una massa duratura, ornata, difesa, forata da vetri, fatta per le nostre vite, per contenere le nostre parole e dalla quale fuggono i nostri fumi”. Questa multi-esistenza della cattedrale e dell’architettura in genere, oggetto al contempo astratto e fenomenico, è la stessa di cui scrive Minsky nel brano che hai citato. La sua è effettivamente un’intelligenza leonardesca.

Chiesa della “Resurrezione di Gesù” Cino Zucchi Architetti con Zucchi & Partners Sesto San Giovanni (Milano), 2004-2010

Chiesa della Resurrezione di Gesù. Cino Zucchi Architetti con Zucchi & Partners. Sesto San Giovanni (Milano), 2004-2010.

Una volta mi hai parlato di Hofstadter e del suo testo Variations on a Theme as the Crux of Creativity, in cui evidenzia come molte scoperte scientifiche provengano dall’osservazione di piccole ma rilevanti variazioni portate all’estremo.

Questo è un concetto che ho abbracciato in pieno nella mia attività. Invece di pensare sempre a rifondare tutto, bisognerebbe procedere per variazioni minime perseguite con costanza. Io credo che il processo progettuale sia un albero di scelte, un insieme di diramazioni in cui di volta in volta si è chiamati a scegliere la giusta direzione, fino al risultato finale. Questo schema complesso è in un certo senso molto simile alla Teoria dei Giochi studiata dall’intelligenza artificiale.

Come riesci a bilanciare il tuo spiccato pragmatismo nella realizzazione dei progetti con una cultura umanistica e multidisciplinare?

Ho un’educazione di stampo americano. Sono un fanatico di Thomas Jefferson, che quando era presidente degli Stati Uniti progettò la University of Virginia in stile palladiano, disegnando però dei fantastici muretti a serpentina – degni di Eladio Dieste. Dall’America ho appreso la grande lezione dell’empirismo, e nella mia testa ho cercato sempre di unire l’approccio scientifico e sperimentale, che fa grande gli americani, con l’erudizione storica tipica di noi italiani. 

Qual è la tipologia e la scala architettonica con cui ti trovi più a tuo agio?

A me piace cambiare. Ho sempre fatto con interesse quello che mi è stato chiesto, cose anche molto diverse tra loro. Paradossalmente, a volte è più difficile disegnare un rubinetto che una città, perché la progettazione di quest’ultima si basa su regole e tecniche ormai acquisite. Talvolta, man mano che scendi di scala, il tema diventa più arbitrario e quindi più complesso. Per questo sono molto incuriosito dal design: proprio quest’anno, per la prima volta, ho avuto l’occasione di lavorare per Artemide e mi sono divertito molto.

Edificio residenziale la Corte Verde di Corso Como Cino Zucchi Architetti Milano, 2006-2013

Edificio residenziale la Corte Verde di Corso Como. Cino Zucchi Architetti. Milano, 2006-2013.

Meglio un progetto libero o uno fortemente vincolato? 

Mi piacciono i temi con forti limitazioni, sono quelli che hanno stimolato i miei progetti migliori. Molti associano il mio nome all’edificio residenziale D a Venezia, una casa a basso costo in un contesto vincolatissimo. Credo che la libertà non sia sempre foriera di qualità, perché quando lavori con vincoli molto rigidi sei costretto ad aguzzare l’ingegno. Ultimamente, mi sono molto divertito con la curatela del Padiglione Italia, perché è un lavoro rapido. Io sono impaziente, non so aspettare, il risultato qui lo vedi in cinque o sei mesi, fantastico!

Se non avessi fatto l’architetto, che mestiere avresti scelto? Penso a Michel Rojkind, che dieci anni fa ha lasciato la sua carriera di batterista per dedicarsi all’architettura. O a Vito Acconci, che con le sue performance ha segnato la storia dell’arte e ora è un architetto di successo. 

Certamente il musicista! Ho suonato per anni batteria e percussioni, da dilettante. Musica a parte, ho un carattere artigiano, per cui non amo i lavori organizzativi e quelli basati sulle pubbliche relazioni. Mi piacciono tutte le attività dove, applicando dei processi rigorosi, si producono risultati inaspettati. Il falegname, per esempio. Pensa a San Giuseppe. Per un falegname la creazione non si pone ab ovo, ma nella variazione della modanatura, dei tipi. Savinio lo chiamava il “pensare con le mani”, un giusto antidoto all’idealismo e all’estetismo. Tornando alla questione del pop, sono un appassionato collezionista di arti minori. Mi piacciono le esperienze d’arte inconsapevoli, la serie inesausta di figure generate dalla cultura materiale di tutti i giorni. Con l’artigianato puoi arrivare all’arte oppure no, è come tirare un colpo di dadi.

Cino Zucchi suona le Tablas con Piero Milesi, 1974.

Cino Zucchi suona la tabla con Piero Milesi, 1974.

Immaginiamo una playlist tra architettura e musica. Prova a legare i tuoi progetti a una canzone.

Una volta mi sono divertito molto facendo una playlist sul tema della città per Patrick Tuttofuoco. Mi piace il pop sofisticato, potrei fare un lungo elenco. Parto da me: Baby Cino di Miss Maureen e Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen. Poi i miei progetti:

Chiesa Resurrezione di Gesù, Sesto San Giovanni, Milano
Something is Sacred degli Eels

Edificio residenziale D, area ex-Junghans, Venezia
Here I Dreamt I Was an Architect di The Decemberists

Edificio residenziale B, area ex-Junghans, Venezia
The Age of the Understatement di The Last Shadow Puppets

Piano Particolareggiato per Central Pasila, Helsinki
A Long Term Plan degli Acid House Kings

Galleria Vedeggio-Cassarate, Lugano
Why Don’t We Do It in the Road dei Beatles

Nel corpo della città, installazione per il MAXXI di Roma
All This Useless Beauty di Elvis Costello

Salewa Headquarters, Bolzano
Don’t Deconstruct dei Rilo Kiley

Giardino Pubblico, San Donà di Piave, Venezia
Itchycoo Park degli Small Faces

Parco Pubblico Cino Zucchi Architetti con Gueltrini e Stignani Associati San Donà di Piave (Venezia), 2004-2007

Parco Pubblico, Cino Zucchi Architetti con Gueltrini e Stignani Associati. San Donà di Piave (Venezia), 2004-2007.

Edificio residenziale La Corte Verde, Milano
Both Sides Now di Joni Mitchell

Lotto 4 Darsena, Ravenna
Carnival di Natalie Merchant

Ridisegno della facciata del Negozio Benetton, Bruxelles
Stories of the Street di Leonard Cohen

Archimbuto, portale per il Padiglione Italia, Biennale di Venezia
Invisible Ones Guard the Gate di Orenda Fink

Chiudo con I Like the Sound of Breaking Glass di Nick Lowe e Clowntime is Over di Elvis Costello.

Da curatore del Padiglione Italia, negli ultimi mesi hai fatto una full immersion nell’architettura nazionale. Qual è il suo stato di salute? 

La crisi è profonda dal punto di vista professionale e immobiliare, ma in termini qualitativi si nota una grande rinascita. Potrei citare Gio Ponti quando parlava di architetti “valorosi e coltissimi”. La generazione tra i trentacinque e i quarant’anni, che opera in Italia e in Europa, ha una qualità altissima e una maturità in alcuni casi molto evidente. Dopo aver toccato il punto più basso negli anni Ottanta, la qualità dell’architettura italiana oggi si è decisamente ripresa. In questo contesto ci sono poi alcuni autori, ma soprattutto alcune opere, davvero convincenti. Penso alla Casa e Atelier d’artista a Castelrotto dei MoDus Architects: è innovativa dal punto di vista tipologico, con buone soluzioni tecnologiche, a costi abbastanza contenuti. Cosa vuoi di più? 

Central Pasila - Piano particolareggiato area torri Cino Zucchi Architetti con One Works e Buro Happold London Helsinki (Finlandia), 2009

Central Pasila – Piano particolareggiato area torri, Cino Zucchi Architetti con One Works e Buro Happold London. Helsinki (Finlandia), 2009.

Entusiasta quindi?

Sì, è un momento fortunato. Architetti giovani e dotati come Alessandro Scandurra, Onsitestudio o Labics hanno avuto ottime occasioni di costruire palazzi e uffici. In generale, mi sembra che la committenza di oggi si serva maggiormente di buoni architetti rispetto a ciò che faceva negli anni Ottanta. I momenti di crisi politica e economica spesso corrispondono ai momenti di fioritura artistica.

Cosa c’è della tua indole di collezionista nel Padiglione Italia?

Ancora Paul Valéry diceva che “un gusto è fatto di mille disgusti”. Quando metti insieme molte cose, costruisci una ripetizione per differenza, un meccanismo quasi artistico che ti consente di evidenziare non tanto le singole esperienze, ma ciò che le tiene legate, le relazioni. George Kubler nel suo libro The Shape of Time le avrebbe chiamate “sequenze formali”. Nell’installazione Copycat. Empatia e invidia come generatori di forma, che ho realizzato per la scorsa Biennale di Architettura, curata da David Chipperfield, avevo esposto una collezione di insetti accanto a una serie di sommergibili, per evidenziare le simmetrie tra i meccanismi di funzionamento dell’evoluzione biologica e tecnica.

Quindi la collezione può essere un esercizio di simmetria nella varietà.

Personalmente sono affascinato dal mondo proprio per la sua bizzarria, quando vado su eBay impazzisco di gioia. Mi commuove l’abilità dell’uomo nel produrre serie di cose ben oltre la dimensione del bisogno. I formaggi francesi, per esempio. Il collezionista ha sempre un approccio leggermente perverso, e il Padiglione in qualche modo riflette questa mia tendenza. Nella sezione su Milano ci si può trovare, per esempio, un genio anomalo come Cesare Pellegrini. Al pari di Paco Alonso de Santos a Madrid, o Maurice Smith a Boston, Pellegrini fa parte di quel novero di personaggi molto colti e carismatici con gli studenti, che però non sono inquadrabili dal punto di vista mediatico. Questo è il bello della collezione, che a volte trovi elementi inclassificabili. È un po’ come quando a Roma ti imbatti nella Chiesa Santa Maria dei Sette Dolori del Borromini, un’opera minore, ma interessantissima.

Quale delle tue opere avresti esposto tra gli Innesti

Anche se per ovvie ragioni di stile non ne ho inserita nessuna, potrei dire che quasi tutte le mie opere sono “innesti”. Non lavoro mai solo sull’edificio, ma sul rapporto con lo spazio aperto, con un approccio se vuoi un po’ barocco, concavo, come la piazza di Sant’Ignazio a Roma. Per me lì c’è tutto il potere del barocco italiano. Diciamo che avrei avuto un’ampia scelta di me stesso da mettere in mostra. Ma in generale il tema che ho proposto rappresenta bene la mia attitudine a operare per interferenze e interpretazioni dell’esistente.

Inverted Shadows, design di Cino Zucchi per Artemide, 2014

Inverted Shadows, design di Cino Zucchi per Artemide, 2014.

Cino Zucchi

Cino Zucchi. Photo by Ivan Sarfatti.

Biennale di Venezia, Padiglione Italia, 2014.

Biennale di Venezia 2014. Padiglione Italia. Foto di Marina Caneve.

Biennale di Venezia, Padiglione Italia, 2014.

Biennale di Venezia 2014. Padiglione Italia. Foto di Marina Caneve.

Ingresso della galleria Vedeggio Cassarate (Portale Cassarate) Cino Zucchi Architetti con studio d’ingegneria Mauri & Banci SA Lugano (Svizzera), 2012

Ingresso della galleria Vedeggio Cassarate (Portale Cassarate). Cino Zucchi Architetti con studio d’ingegneria Mauri & Banci SA, Lugano (Svizzera), 2012.

Salewa Headquarters Cino Zucchi Architetti e Park Associati (Filippo Pagliani, Michele Rossi) Bolzano, 2007-2011

Salewa Headquarters, Cino Zucchi Architetti e Park Associati (Filippo Pagliani, Michele Rossi). Bolzano, 2007-2011.

Edificio residenziale D, area ex-Junghans Cino Zucchi Architetti Venezia, 1997-2002

Edificio residenziale D, area ex-Junghans, Cino Zucchi Architetti. Venezia, 1997-2002.

Edificio residenziale alla Darsena Zucchi & Partners Ravenna, 2006-2011

Edificio residenziale alla Darsena, Zucchi & Partners. Ravenna, 2006-2011.



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