Cini Boeri
Autonomia e responsabilità

10 Settembre 2014

“Lei fuma?”, mi chiede. “No grazie”, rispondo. Nel suo studio luminoso di via Donizetti, a Milano, l’architetto Cini Boeri prima offre e quindi sfila, dal pacchetto, una Marlboro Light. Poi l’accende, fa due tiri, tre al massimo. E infine la spegne. È l’emancipazione femminile fatta architetto, una donna d’altri tempi, passati e futuri. Nata a Milano nel 1924, nel 1951 si laurea al Politecnico in una classe universitaria con altre due donne. Dopo il battesimo con Gio Ponti, e la lunga collaborazione con Marco Zanuso, apre il proprio studio nel 1963 dedicandosi ad architettura civile e disegno industriale. Insegna al Politecnico dal 1981 al 1983, e da designer firma pezzi celebri come il tavolo Lunario per Knoll, la poltrona Ghost per Fiam e il divano componibile Strips per Arflex, che le vale il Compasso d’Oro nel 1979.

Fuma da sempre?

Ho iniziato quando ero partigiana. Avevo 18 anni, eravamo sfollati in montagna sotto al Mottarone, e collaboravo facendo la staffetta per i documenti. Ma qualche volta partecipai anche a dei raid antitedeschi.

Partiamo da qui. Cos’è per lei l’antifascismo?

Antifascisti si nasce, non si diventa. A casa mia eravamo antifascisti dalla nascita. Ricordo che quando dovevo vestirmi da piccola italiana, mio padre chiudeva gli occhi e usciva. Non ce la faceva proprio.

Come se li ricorda quei giorni?

Ho un ricordo nitido, quanto vorrei poter mostrare l’immagine che ho negli occhi! Vedo ancora i paracadute che si aprono come ombrelli bianchi nel cielo. Con uno mi ci cucii anche una gonna.

Donna, antifascista, disegna gonne dai paracadute. Qual è il passo successivo?

Architetto.

Cini Boeri e Gio Ponti.

Cini Boeri e Gio Ponti, 1954.

Perché proprio l’architetto?

Lo volevo da sempre. Avevo conosciuto Giuseppe De Finetti che continuava a dirmi di rinunciare perché l’architettura è un mestiere da uomini. “Che c’entri tu?”, mi chiedeva.

Dei suoi tre figli, Stefano ha seguito le sue orme (Sandro è giornalista, Tito economista, nda). È riuscita a trasmettergli la passione.

Fare questo mestiere vuol dire rinnovarsi ogni giorno, creare sempre qualcosa di nuovo. Da bambino, quando gli facevano quelle domande stupide su cosa volesse fare da grande, Stefano rispondeva sempre: l’architetto. L’ha fatto, ma non mi sembra che si sia ispirato al mio lavoro, lui ha una visione più laterale della mia. Fra l’altro, l’ho appena sentito di ritorno dalla Biennale di Architettura: dice che è interessante, ma non si sbilancia.

A proposito, la Biennale 2014 curata da Rem Koolhaas s’intitola Fundamentals. Quali sono secondo lei i fondamentali dell’architettura?

Amare la vita e l’uomo che la abita. L’architetto dovrebbe essere portatore di cultura.

Ne parlano come di un’edizione un po’ provocatoria, Marcel Duchamp diceva che l’architettura è una forma di idraulica.

È solo una spiritosaggine, l’architettura è provocatoria perché deve o dovrebbe aiutare l’uomo a vivere. È una forma di creatività che trae origine dalla vita stessa, quindi la qualità di un architetto dovrebbe migliorare nel corso degli anni.

SERPENTONE, design di Cini Boeri per Arflex, 1971.

Serpentone, design di Cini Boeri per Arflex, 1971.

Prima di parlare delle architetture altrui, iniziamo da casa sua.

Vivo in affitto in una casa normale, abbastanza grande, molto pratica, in piazza Sant’Ambrogio.

Un osservatorio d’eccezione per vedere com’è cambiata Milano negli ultimi anni.

Ultimamente mi sembra che la città sia in mano ai costruttori, e che la soprintendenza lasci troppo correre. In sostanza, chiunque può fare di tutto.

C’entra anche l’amministrazione comunale? Eppure oggi c’è il sindaco Pisapia, con cui suo figlio Stefano ha collaborato da assessore alla Cultura, Moda, Design ed Expo.

Poverino, l’hanno cacciato tante volte, forse perché Stefano è uno che esprime sempre le proprie idee. Peccato, perché aveva cominciato ad aprire i teatri, a divulgare la musica. Dal punto di vista culturale, mi sembra che stesse facendo un ottimo lavoro.

Qual è il punto debole della città?

Milano ha delle zone molto belle, ma, ripeto, la soprintendenza lavora poco e male, lasciando campo libero a interessi privati o inutili. La colpa è anche di un ambiente intellettuale che non si occupa della città in cui vive.

Com’era l’ambiente intellettuale quarant’anni fa?

Più vivace, ma non mi chieda il nome di una grande personalità, dovrei andare a ritroso di cinquant’anni. Il problema è che alla fine anche in Italia ha prevalso il senso pratico, come dimostra il successo di Berlusconi e del suo seguito. Diciamo che la società italiana non è al suo meglio.

Sì, però lo dice con il sorriso.

Forse perché ho il coraggio delle mie opinioni. In fondo, il mondo intellettuale italiano cos’ha prodotto? Lo sa, ultimamente cerco di collezionare facce simpatiche e oneste.

Cibi, design di Cini Boeri, 1973.

Cibi, design di Cini Boeri per Arnolfo di Cambio, 1973.

Cosa se ne fa?

Le appendo in casa, ho bisogno di circondarmi di belle facce. Facce di gente onesta. Soprattutto ora che non ci sono più i miei ragazzi ad animare le stanze.

Al momento che facce ha appeso?

Per adesso ne ho una sola, ma se le dico chi è mi etichetta immediatamente.

No, promesso.

Berlinguer da giovane, l’ho già incorniciato e appeso a una parete. Il bello è ovviamente un concetto relativo, ma la sua faccia ha qualcosa da dire.

È appena trascorso il trentesimo anniversario della sua scomparsa, con Veltroni che ne ha fatto un film, Quando c’era Berlinguer, e il Movimento 5 Stelle che lo ha trasformato in leader postumo. A proposto, appenderebbe la faccia di Beppe Grillo?

Mai. Sono presuntuosa se dico che comprendo le persone dall’espressione del volto?

No, non credo. Come sono cambiate le facce delle donne di oggi? 

Sono bellissime. Quand’ero giovane io s’idolatrava il maschio. Poi col tempo abbiamo dimostrato di essere in gamba anche noi. Non penso a una donna in particolare, ma se vuole un esempio le cito la Gabanelli, non certo la Santanchè.

Lei ha lottato per diritti che oggi sono appannaggio di tutte. 

Sì, ora sembra che tutto sia scontato. Noi invece avevamo un compito chiaro, netto. Penso ad esempio al Politecnico, ambiente molto maschile, con pochissime donne: nel mio anno su nove riuscimmo a terminare gli studi in tre.

Mentre studiava, sapeva già cosa avrebbe voluto fare?

Mi hanno sempre interessato le abitazioni, gli ambienti per la vita dell’uomo. Per dirla più chiaramente, non ho mai pensato di progettare un monumento.

C’è un’abitazione cui è più affezionata?

Casa Bunker, la piccola villa a La Maddalena. Sintetizza al meglio il mio modo di pensare. La pianta ha quattro stanze, ognuna con il proprio bagnetto e una propria uscita verso il mare. Il mio concetto di abitazione è stato sempre questo: massima autonomia, cioè piena responsabilità.

Casa Bunker, La Maddalena.

Casa Bunker, loc. Abbatoggia, La Maddalena, Sassari, Italia, 1967.

Pensa di esser più architetto o designer?

Mi piace di più progettare gli interni, perché la disposizione degli spazi riflette sempre un determinato modo di vivere.

Cos’è diventato oggi il design?

Pura ricerca di decoro, mentre negli anni Cinquanta era disegno della funzione. Se c’è una cosa che noi non volevamo fare era design decorativo, mentre oggi non riesco a pensare a un solo oggetto di design che rispecchi una funzione, un materiale.

Lei pronuncia design con la gn ben marcata. Ma perché lo chiamiamo con la parola inglese? Per anni è stato un movimento soprattutto italiano.

Sì, sono d’accordo e io l’ho visto crescere.

È stato difficile?

Cercavo di dissacrare l’amore per l’antico in voga negli anni Cinquanta. Il mio design si è espresso nel letto che si smontava e si richiudeva (la linea Strips, 1968), o nella poltrona multiuso che ti accoglieva quando tornavi a casa (Borgogna, 1964).

Da allora sono cambiati anche i produttori?

In questo periodo di crisi ti rispondono tutti: “Bello, interessante, progressista. Ma non adesso, architetto”.

Tanti premi, un palmarès invidiabile che va dal Product Design Award Resources Council al Roscoe Prize, dal Compasso d’Oro al Good Design Award. Come ci si sente?

Ogni tanto ci penso e provo vergogna, altre volte me ne ricordo e sono contenta. Ma non sono esibizionista, fondamentalmente provo imbarazzo.

Nel 2011 ha anche ricevuto la benemerenza della Repubblica Italiana: Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Quando Napolitano mi ha consegnato il distintivo gli ho detto: “Grazie, ma non lo metterò”. Lui mi ha risposto: “Ma se vengo un giorno a pranzo a casa vostra, lo mette?”.

Quando si guarda allo specchio è contenta? 

Sto invecchiando, voglio mantenere un po’ di dignità anche con gli anni, ma sono abbastanza contenta. Cose inutili, non mi pare di averne fatte.

Borgogna, design di/by Cini Boeri per/for Arflex, 1964.

Borgogna, design di Cini Boeri per Arflex, 1964.

Ha tenuto lezioni in molte università: a Milano, Berkeley, Barcellona, San Paolo, Rio De Janeiro, Detroit, Los Angeles. Che impressione ne ha tratto?

I giovani partecipano sempre molto volentieri, ho un bel rapporto con loro.

Oggi cosa vorrebbe insegnare?

A essere autonomi e responsabili. Ai giovani architetti direi che prima di disegnare la pianta di un appartamento bisogna capire chi ci andrà ad abitare. Una coppia o una coppia con figli? Vorrei che ci si impegnasse a essere più responsabili.

Le sembra che i giovani preferiscano non assumersi le proprie responsabilità?

Sì, tantissimo. Alcuni non lo fanno per insicurezza, altri perché non si ritengono capaci di agire in autonomia. C’è la prepotenza, il disorientamento, e la semplice pigrizia.

Bisognerebbe inventare uno stimolante per i pigri.

Esatto, magari qualche spuntone che costringa ad alzarsi in piedi. Potrebbe essere un’idea.

Di belle idee ne ha avute tante, sempre legate all’architettura civile. Come i rivoluzionari mobili per la scuola.

Sì, la scuola senza castigo né premio, una proposta inoltrata al Ministero. Con aule di forma circolare, dove ciascun allievo ha un cassetto privato, i banchi sono a tre a tre e c’è piena interazione tra studenti e insegnante.

Ultimamente, insieme alla onlus Liveinslums, avete pensato a una linea di arredi da progettare con il laboratorio di falegnameria dei detenuti del carcere di Bollate.

Anche qui, niente castigo. La qualità dello spazio personale, anche se imposto, può favorire quella dignità umana che il carcerato corre il rischio di perdere.

Mi può descrivere il progetto?

È una cassettiera da porre di fianco al letto, con un comodino, un pannello e una mensola per appendere i vestiti che alla bisogna ti proteggono dalla vista dell’altro. Il prototipo lo realizza direttamente la falegnameria del carcere.

E pensare che lei ha iniziato con uno stage da Gio Ponti. Cosa le disse?

Mi chiese: “Hai voglia di lavorare? Allora vieni”. Mentre la sua segretaria era preoccupata e chiedeva: “Dov’è il bambino, dove ha lasciato il bambino, signora Boeri?”.

Fra le varie collaborazioni che può vantare c’è quella con Zanuso per il rifugio destinato alle madri nubili di Lorenteggio.

Sì, a ogni letto avevamo abbinato una cassettiera che fungeva da divisorio e garantiva un po’ di privacy. Il progetto era nato per la Senavra, una sorta di casa per ragazze madri a Milano, e l’aveva finanziato la signora Bonomi, benefattrice come non ne esistono più.

Istituto religioso le Carline, 1952. / Le Carline religious institute, 1952.

Istituto religioso le Carline, 1952.

E sua madre com’era?

Io sono una figlia naturale, mi sembra giusto presentarmi così. Mia madre era una donna molto libera e intelligente, faceva l’insegnante e quando andavo a trovarla nella sua classe trovavo le bambine sedute sulla cattedra con le gambe a penzoloni. C’era già il sentore di una certa autonomia e libertà.

Come l’ha tradotta in architettura quest’idea di libertà?

Nelle abitazioni che progetto c’è un particolare: una stanza in più. È lo spazio delle riflessioni individuali, la stanza dove una persona può vivere autonomamente anche se in coppia.

Un’idea molto innovativa. Come la prendevano i clienti?

Capitava che mi rispondessero: “Guardi che noi dormiamo insieme, sa?”. Allora rispondevo: “Vabbeh, metta che uno dei due abbia il raffreddore?!”. Erano anni in cui era più consono proporre un raffreddore piuttosto che un po’ di autonomia.

Oltre che un architetto, finiva per essere anche una psicologa di coppia.

Beh, sono stata chiamata anche killer dei matrimoni, perché proponevo sempre le due stanze. Ma per me era importante poter scegliere, e non dover essere obbligati a stare insieme.

C’è una bella differenza.

Sì, anche se il più delle volte la stanza in più finiva poi per essere destinata agli ospiti.

Perché si è separata se avevate due stanze?

Non me lo ricordo (sorride). Renato era simpatico, quando gli chiedevano: “Ma eravate così una bella coppia”, lui rispondeva: “Cini aveva la sua personalità e doveva esprimerla”. È vero. Pensi che fatica, oggi come allora, avere al fianco una donna un po’ troppo saccente e autonoma. Ma forse gliel’ho già chiesto, lei fuma?

Bobo, design di Cini Boeri

Bobo, Bobolungo e Boboletto, design di Cini Boeri per Arflex, 1967.

Cini Boeri, 1978.

Cini Boeri, 1978.

Pecorelle, design di Cini Boeri per Arflex, 1972.

Pecorelle, design di Cini Boeri per Arflex, 1972.

STRIPS, design di Cini Boeri per Arflex, 1972.

Strips, design di Cini Boeri per Arflex, 1972.

Casa La Sbandata, loc. Stagno Storto, La Maddalena, Sassari, Italia, 2003/2004.

Casa La Sbandata, loc. Stagno Storto, La Maddalena, Sassari, Italia, 2003/2004.

Ghost, design di Cini Boeri

Ghost, design di Cini Boeri per Fiam, 1987.

Cini Boeri al carcere di Bollate con l'associazione Liveinslums.

Cini Boeri al carcere di Bollate con l’associazione Liveinslums.

Casa nel bosco, Osmate, Varese, 1969.

Casa nel bosco, Osmate, Varese, 1969.


Francesca Esposito

Giornalista, collabora per diverse testate, scrivendo di architettura, fotografia, arti e mestieri. Si occupa di comunicazione nella nuova Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Vive nel cuore del quartiere cinese di Milano, dopo aver vissuto a Shenzhen, a Roma, a Parma, a Londra e a Parigi. Sta programmando una fuga.


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