Giovanni Muzio
“Sogno un museo della città”

6 Aprile 2016

Nomen omen. Un nome, un destino. Quando incontro Giovanni Tomaso Muzio nel suo studio in zona Navigli, allestito in un seminterrato come quello dove lavoravano suo padre Lorenzo e l’illustre nonno di cui porta il nome, penso che nessuno meglio di lui poteva conservare l’eredità di uno dei protagonisti dell’urbanistica e dell’architettura milanesi del Novecento. Da quasi vent’anni, Giovanni Tomaso gestisce infatti insieme alla madre Mirella Zevi l’archivio storico che raccoglie i progetti della lunga attività del nonno, aperto anche agli studiosi. Milanesissimo, piglio vivace, mente veloce, modi (e giudizi) schietti, Giovanni Tomaso è un sincero sostenitore del nonno, classe 1893, autore di 45 degli edifici entro la cerchia dei bastioni di Milano. A tratti assume il tono del suo avvocato difensore, chiamato a riscattare una figura complessa e vitalissima.

Non credi di esagerare un po’ parlando di negazione del valore o perlomeno di mancanza di riconoscimento?

Per nulla. Con la mostra del 1994 curata da Franco Buzzi Ceriani per la riapertura della Triennale di Milano – uno dei progetti simbolo di Muzio – ci fu molto rumore attorno a mio nonno: vennero pubblicati diversi articoli, Vittorio Gregotti si augurò una valutazione più articolata della sua opera, uscì una monografia scritta da Fulvio Irace che manifestava la speranza di riaccendere l’attenzione su un progettista trascurato. Poi calò il silenzio. Quella è stata la prima e ultima mostra antologica su Muzio. Non c’è più stata la volontà di studiarlo, indagarlo, capirlo. Anche i grandi nomi della critica lo hanno snobbato: Bruno Zevi lo ha cancellato e Kenneth Frampton lo ha citato nella sua storia dell’architettura con un solo progetto: Ca’ Brütta.

Giovanni Muzio, 1930.

Giovanni Muzio, 1930. Courtesy: Archivio Muzio.

Come te lo spieghi?

In parte perché ha lavorato nel Ventennio, un periodo storico e politico a lungo rimosso, più in architettura che in arte. Chi si è formato nel decennio successivo alla fine del fascismo, gli ottantenni di oggi, lo ha rimosso per motivi facilmente intuibili. Chi ha studiato negli anni Settanta aveva invece voglia di guardare al nuovo, al grande modernismo e all’international style. Poi arriva la mia generazione, nata negli anni Sessanta, che avrebbe potuto iniziare di nuovo a studiarlo, ma si è limitata a ripercorrere quello che era già stato fatto, senza intraprendere nuove ricerche. Muzio era un socialista, credeva nell’architettura come arte eminentemente sociale. Il periodo tra le due guerre è stato per lui straordinario. Disegna e realizza tutti gli edifici più rappresentativi della città: la sede centrale Cariplo, il Palazzo dei Giornali, quello del Popolo d’Italia, il Palazzo dell’Arte, il Palazzo della Provincia. Muzio ha la straordinaria opportunità di disegnare gli edifici e i quartieri che segnano la città che cresce. Quel periodo ha dato un taglio, una lettura alla città. A Milano, in quella stagione hanno lavorato in tanti: mio nonno, ma anche Alpago Novello, Emilio Lancia, Tomaso Buzzi, Gio Ponti, Ferdinando Reggiori, Ottavio Cabiati. Non tenerne conto significa essere provinciali.

Trovi ci siano ancora dei pregiudizi sulle architetture prodotte durante il fascismo?

Sono ormai caduti. Mio nonno ha iniziato a lavorare a Milano appena rientrato dalla Conferenza di Pace di Parigi, nel novembre del 1919. La sua opera prima nasce da una committenza privata. Aveva 26 anni quando entra a far parte dello studio Barelli-Colonnese. Oggi l’edificio originario Quartiere Moscova, tanto avversato dai suoi contemporanei da essere soprannominato Ca’ Brütta, è visto come simbolo dello spartiacque tra eclettismo e moderno, per la libertà dell’uso dell’intonaco e la semplificazione in facciata. È stato anche il primo esempio in Italia in cui è stato spaccato un isolato creando una strada privata aperta al pubblico.

Ca’ Brütta, foto di Luca Campigotto.

Ca’ Brütta, Milano. Foto: Luca Campigotto.

Ca’ Brütta, un edificio di svolta il cui restauro, ventennale, si è da poco concluso.

Con grande soddisfazione di tutti quelli coinvolti, anche mia. Nel 1992 sono diventato consigliere di Ca’ Brütta e, come responsabile dell’archivio storico Muzio, sono stato il supervisore artistico del restauro, che è stato in parte conservativo, in parte di recupero e in parte di reintegrazione. Oggi l’edificio è stato riportato com’era nel 1922. Negli ultimi quattro anni, ho posto mille problematiche per garantire il rispetto dell’opera originaria.

Ca’ Brütta è stata oggetto di una call-to-action fotografica e di una mostra che aprirà il 15 aprile a Milano.

Su Instagram abbiamo invitato tutti a condividere le foto dei progetti di mio nonno attraverso una call lanciata il 18 novembre scorso, a 100 anni esatti dalla laurea di Muzio in architettura civile. In mostra al Castello Sforzesco, oltre alle foto di Instagram che faranno conoscere ai non addetti ai lavori l’eredità che ci ha lasciato, ci sarà il materiale iconografico originale che inquadra il progetto nella sua dimensione storica e foto d’autore che ritraggono l’edificio negli scorsi decenni e oggi: immagini di Ugo Mulas e Gabriele Basilico, oltre agli scatti di trenta fotografi, da Gianni Berengo Gardin a Giovanni Gastel, invitati da Giovanna Calvenzi, che hanno riletto l’edificio e la sua poetica dopo il restauro. Rileggere Muzio tramite il suo edificio manifesto puntando sulla fotografia è per me il modo migliore di raccontarli entrambi. La mia speranza è che da tutto questo si riaccendano i riflettori su di lui.

Ca’ Brütta. Foto: Francesco Radino.

Ca’ Brütta, Milano. Foto: Francesco Radino.

Perché il Castello Sforzesco?

Il nostro meraviglioso castello è un simbolo del passato, ed è anche l’unico luogo dei non milanesi. Non piaceva a mio nonno perché era legato a un’idea di restauro che fortunatamente non esiste più. A me piace perché è un ufo ed è popolare, come Ca’ Brütta, che con il lavoro di restauro e questa mostra viene restituita alla città. È stato interessante completare, con la collaborazione delle conservatrici del castello, la ricerca dei nostri materiali d’archivio su Ca’ Brutta con le documentazioni dell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, del Civico Archivio Fotografico e della Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli.

Nei tuoi toni è molto vivo l’aspetto professionale, ma si sente anche l’orgoglio dell’appartenenza famigliare. Che nonno era Giovanni Muzio?

Era meraviglioso. Un uomo rude e direttissimo. Con lui ho imparato a nuotare. Mi ha gettato in acqua e mi ha esortato a cavarmela. Passavo del tempo con lui soprattutto d’estate, quando tutta la famiglia trascorreva un mese insieme nella casa a Sirmione del Garda progettata da lui. Amava quella casa e fare il bagno in tutte le stagioni. Lo ha fatto fino a un anno prima di morire, nel maggio 1982. Io all’epoca avevo 16 anni.

Ca’ Brütta. Foto: Maurizio Camagna.

Ca’ Brütta, Milano. Foto: Maurizio Camagna.

Ti ha mai parlato del suo mestiere?

Era un uomo schivo e non parlava mai di se stesso. Ti invitava a pranzo una volta alla settimana e si divertiva insegnandoti a bere, perché secondo lui non aveva senso non provare l’alcool. Solo dopo la sua morte ho scoperto molte cose sul suo lavoro. Durante gli anni dell’università a volte mia madre, girando per Milano, mi mostrava le architetture di mio nonno. Era una sorta di educazione estetica. Io ho avuto la fortuna di vivere sempre e solo in spazi belli, progettati da architetti, quasi sempre  della famiglia. Ora vivo in una casa pensata da mio nonno, poi ristrutturata da mio padre e infine da me.

Un destino da architetto segnato. Siete alla quarta generazione. Ti hanno incoraggiato a portare avanti il nome di famiglia?

Al contrario. Sia io sia mio fratello maggiore Sebastiano siamo stati fortemente sconsigliati da madre e padre architetti. Erano gli anni Ottanta e cominciava a farsi sentire la crisi in una professione sempre molto amata. Probabilmente, decidemmo di farlo per ribellione. Non abbiamo mai avuto l’impressione di essere parte di un’impresa di famiglia che non bisognava lasciare morire. Ci premeva solo condividere delle immagini, delle idee, una razionalità nel fare, il piacere di trovare con il tempo degli elementi comuni.

Cosa significa per te oggi fare questo mestiere?

Noi architetti siamo dei fornitori per conto terzi, prima di essere primedonne. Siamo costruttori di spazi finalizzati alle esigenze del cliente e lo facciamo pensando anche al suo futuro, cercando chiaramente di trovare un equilibrio tra razionalità ed eleganza, aggiungendo una lettura personale, un taglio. Oggi invece la sensazione è che l’architettura non sia più intesa come mestiere. In primo piano ci sono protagonismo, presenzialismo, marketing, relazioni. Si è perso il messaggio più concreto e vero del progetto architettonico a favore del suo vestito esteriore, si punta sull’immagine e non su una pianta o una sezione ben studiate. I dettagli di un progetto dovrebbero essere la conseguenza di una logica e di un pensiero globali, non elementi che concorrono a creare un bell’oggetto che spesso, poi, non sa relazionarsi con il contesto.

Ca’ Brütta. Foto: Ray Banhoff.

Ca’ Brütta, Milano. Foto: Ray Banhoff.

Proponi un “ritorno ai fondamentali” della professione, agli elementi di base del progetto. Fundamentals e Elements of Architeture sono rispettivamente il titolo della Biennale 2014 e della mostra nel Padiglione Centrale dell’archistar Rem Koolhaas. La vostra visione è allineata? 

Trovo paradossale che un architetto come Koolhaas abbia impostato la sua Biennale su questi temi. È un professionista molto capace, bravissimo all’inizio, con una nuova visione globale, ma i suoi progetti non sono sempre calati nel contesto in cui sorgono. Non ho amato la sua Biennale, osannata ancora prima di essere inaugurata. Da professionista, non mi ha insegnato nulla. Mi ha dato l’impressione di nascere da un impianto editoriale trasformato in esposizione.

Ti sarà piaciuta allora la nuova Fondazione Prada di Koolhaas, che plasma a contenitore dell’arte una ex-distilleria diventata poi deposito merci.

Mi piace la zona, oggetto di grandi trasformazioni, ma il progetto lo trovo frammentario, con elementi funzionali, ma indipendenti tra loro. Per ora è un intervento rispettoso, ma manca la torre, che sarà il cappello a tutto il progetto, oltre che un segnale visivo di forte richiamo. Probabilmente è l’architettura di Koolhaas a “non chiamarmi”, ma riconosco alla Fondazione Prada il merito di attuare iniziative utili alla città, e di farlo da trent’anni. In linea con quello che fa Beatrice Trussardi con le mostre curate da Massimiliano Gioni, che ci fanno conoscere luoghi preziosi e nascosti di Milano.

Ca’ Brütta. Foto: Giovanni Hänninen.

Ca’ Brütta, Milano. Foto: Giovanni Hänninen.

Da erede di Muzio, non puoi non essere grato alla Fondazione Prada di aver realizzato l’intervento pensato da Dan Flavin per la Chiesa Rossa.

L’essenzialità, l’eleganza e la purezza di quegli spazi hanno permesso di lavorare con l’arte contemporanea e di trasformare uno spazio di culto in un luogo animato da una spiritualità laica. Quei neon semplici esaltano in un modo incredibile la botte, l’abside, gli spigoli vivi. Non dobbiamo convivere con la muffa della storia, ma riappropriarcene. Conoscere la storia è quello che ci aiuta a vivere la nostra quotidianità.

Cosa ne pensi della ripulitura della Darsena? 

Alcune cose meritavano soluzioni diverse. Il mercato, per esempio, poteva essere immaginato come i grandi mercati pubblici europei, e il ponte poteva aver un segno più contemporaneo. Credo però che nella nuova Darsena i singoli oggetti architettonici debbano passare per una volta in secondo piano rispetto all’entusiasmo con cui la città ha riaccolto l’area, dopo aver passeggiato per anni lungo i bordi di un parco “spontaneo” prossimo al degrado assoluto.

E degli interventi di Porta Nuova?

Sono contento che ci sia quella nuova area, ma a livello urbanistico non mi piace. Quando arriveranno le ultime costruzioni, la zona sarà ipersatura. L’impatto sul quartiere Isola è violento, anche perché gli edifici sono visti singolarmente, non in relazione al contesto. Sono felice che Stefano Boeri abbia vinto tutti i premi di questo mondo per il Bosco Verticale, la cui architettura mi riporta agli anni Cinquanta lombardi per l’uso del verde, e che è giustamente diventato un prototipo da esportare, con piccole differenze, a Losanna. Lo replicheranno anche in Cina, e può sicuramente trovare una collocazione in tutte le parti del mondo. Ma nell’insieme non è stato fatto un lavoro sul tessuto urbano, che è una delle cose più difficili in assoluto. Scendendo nel dettaglio ci sono scelte che non condivido: non c’era alcuna necessità, per esempio, di creare un dislivello di 6 metri da corso Como a piazza Gae Aulenti. Sono arrivati i privati, con i soldi, ed è stato creato un nuovo centro, una risposta a quello mai realizzato e pensato nei primi anni Cinquanta. Forse un’operazione così straordinaria avrebbe portato a importanti cambiamenti, più profondi, se avesse interessato una zona più periferica. Peraltro, è stata creata un’enorme area residenziale di cui non c’era una reale necessità, tanto che a investirci, in ultimo, sono stati i fondi stranieri. Sempre parlando di aree residenziali, guardo con curiosità e attenzione a CityLife, un cantiere ancora aperto che immetterà sul mercato una nuova e ingente offerta abitativa. Milano è piccola e anche molto semplice, è una città dove si fa molto business, ma non ci si vive con altrettanta intensità. Questo per dire che chi ha disponibilità economica non compra a CityLife, ma negli edifici storici della città vecchia.

Palazzo dell'Arte, Milano, 1932. Courtesy: Archivio Muzio.

Palazzo dell’Arte, Triennale di Milano, 1932. Courtesy: Archivio Muzio.

Possiamo dire che il tuo approccio al progetto è un po’ conservativo? Alla Muzio, insomma.

Sì, in un certo senso. La lezione che ho appreso da mio nonno è stata il suo rapporto con la città. Lui ha realizzato costruzioni di peso ma leggere, che in primis si relazionavano con il contesto. Di questa necessità è stato consapevole sin dagli anni Venti: nel 1924 fondò il club degli urbanisti con Giuseppe de Finetti, Alpago Novello e molti altri colleghi, e poi partecipò al concorso per il piano regolatore di Milano del 1926-27, in opposizione ai programmi comunali, fino a quel momento controllati solamente dagli ingegneri e dai tecnici. Quel gruppo voleva costruire una città a misura d’uomo e bella da vedersi, tentando di salvaguardare il più possibile l’esistente. Ma vinsero Portaluppi e Semenza, facendo tabula rasa del pregresso con un progetto che dava via libera alla speculazione. Muzio, perdente, continuò comunque a dare consigli, perché si considerava sempre al servizio della città.

Mi sembra che la parola chiave di questo tuo pensiero urbanistico sia “rispetto”.

Se si vive in Italia, uno dei grandi temi è quello di lavorare sul costruito. Forse i vincoli esistenti sono troppo rigidi, ma l’intento è quello di affermare che le nostre città hanno una storia e non possono essere snaturate. Le città dovranno modificarsi al loro interno, diventare sempre più tecniche, lavorare sul risparmio energetico, ma con la consapevolezza che la storia è fatta dalle loro costruzioni.

Palazzo dell'Arte, Triennale di Milano, 1932. Courtesy: Archivio Muzio.

Palazzo dell’Arte, Triennale di Milano, 1932. Courtesy: Archivio Muzio.

La città è fatta anche di quartieri periferici, sui quali recentemente ha portato attenzione il gruppo di lavoro G124 di Renzo Piano.

Iniziativa ammirevole, ma non dobbiamo dimenticare che la periferia non è solo riqualificazione. Bisogna progettarla, o riprogettarla, inserendo dei punti di attrazione, altrimenti ci sarà solo ghettizzazione secondo il modello francese, di cui conosciamo bene i risultati. Non per tirare sempre l’acqua al mulino di mio nonno, ma voglio ricordare che negli anni Quaranta e Cinquanta progettò a Milano – in via Aicardo, dietro viale Tibaldi – un quartiere operaio con case, chiesa e scuole destinate ai lavoratori della Saffa. Quello è il modo di costruire una città.

Milano è molto cresciuta negli ultimi anni, con nuove aree residenziali ma anche “ripulendosi” in vista di Expo 2015. Come valuti gli esiti dell’esposizione universale in relazione alla città?

Il suo primo merito è stato quello di aver permesso a lombardi, piemontesi e veneti – gli italiani sono stati i maggiori affluenti di Expo – di conoscere la città. Oggi, però, il format dell’esposizione universale non ha più senso di esistere, almeno architettonicamente parlando, perché non lascia begli oggetti – come invece aveva fatto negli anni Novanta a Siviglia, in Spagna, ai tempi in cui io lavoravo nello studio di Fernando Távora, e poi a Lisbona, dove ha risolto un nuovo attacco al fiume Tejo. Expo è diventata un’isola extraurbana, una meravigliosa festa popolare, nient’altro. Nulla a che vedere con il progetto originario della consulta di architetti – tra cui Ricky Burdett, Herzog & de Meuron e Stefano Boeri – che puntava su un asse verde che dalla fiera doveva correre fin dentro la città, con architetture esili e minimali, toccando i luoghi nevralgici della cultura tra cui la Triennale di Muzio, che invece in quei sei mesi è rimasta isolata dal sistema, nonostante la mega-mostra di Germano Celant.

Piscina del tennis Club Milano, Via G. Arimondi, 15. Courtesy: Archivio Muzio.

Piscina del tennis Club Milano, Via G. Arimondi, 15. Courtesy: Archivio Muzio.

Qualche padiglione almeno ti è piaciuto?

Il Padiglione Zero di Michele De Lucchi, che trovo molto legato alla sua storia e mi è sembrato essere una citazione simile a quella che Luigi Caccia Dominioni ha realizzato per Piazza San Babila a metà degli anni Novanta.

Dopo Expo, a parlare di architettura e città sarà la XXI Triennale. 

La sua particolarità di lavorare su tante location può essere interessante, se si riesce a metterle in collegamento tra loro, altrimenti diventeranno isole a sé. Bisogna trovare le giuste attrattive, ottimo aver coinvolto l’Università. Sarebbe bello che diventasse un evento corale non troppo intellettuale, ma neppure troppo popolare come Expo. La Triennale oggi è molto forte sul design, grazie al gruppo di lavoro legato a Silvana Annicchiarico e al Design Museum, sempre attivo. Non lo è sull’architettura: non ricordo mostre che mi abbiano interessato, neppure la più recente curata da Alberto Ferlenga e Marco Biraghi, Comunità Italia, durata tre mesi, che ha forse voluto mostrare troppo e quindi non mi ha lasciato molto.

La tua mostra aprirà il 15 aprile in concomitanza con la Triennale, per tre mesi, ma non fa parte del circuito dell’evento.

La mostra non è ospitata dal Castello, ma nasce da una collaborazione con gli archivi del Castello e rientra nel palinsesto culturale del Comune di Milano, Ritorni al futuro. Come tutti gli eventi di Ritorni al futuro, completa l’agenda culturale della città nei prossimi mesi. Mi piace l’idea che questa piccola mostra che si concentra su un solo edificio storico rappresenti uno spunto per conoscere meglio Milano: ovvero, uscire dal Castello, passare in Triennale e poi riscoprire la città e le sue architetture. Durante la mostra abbiamo promosso numerose visite guidate con l’Ordine degli Architetti e il Politecnico, nonché realizzato una mappa pop-up. Un invito a passeggiare nella Milano di Muzio.

Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1929.

Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1929. Courtesy: Archivio Muzio.

La Triennale è anche un edificio simbolo della città. Cosa ne pensi della recente aggiunta della biglietteria esterna progettata da Italo Rota?

È un progetto fine a se stesso. Rota è un architetto conosciuto internazionalmente, non aveva bisogno di mettere il suo cappello anche in questo contesto. Avrebbe potuto fare un’opera leggera e l’ultimo giorno di Expo potevano rimuoverla: l’avrei trovato molto più etico. Potrebbero abbatterla, ma sarebbe un’operazione troppo costosa e temo non lo faranno. In Triennale negli anni sono accadute cose pazzesche. Negli anni Sessanta, l’Impluvium e il cortile, che rappresentavano il sistema di illuminazione naturale, sono stati coperti. La scala in cemento armato costruita nel cortile, per esempio, è stata abbattuta solo nel 2010, quando è arrivato Michele De Lucchi con il suo progetto del Design Museum che ha comportato la realizzazione di nuovi uffici. Sono invece entusiasta del ristorante realizzato sulla terrazza, un bel progetto, oltre che il modo giusto di far vivere un museo in una città cosmopolita.

Mi sembra di intuire che credi nel potere della critica schietta, una qualità rara nel mondo dell’architettura. 

Tutto è mosso da piccole lobby amicali. L’atteggiamento attuale è di condivisione oppure di silenzio. Anche i convegni sono un po’ fine a se stessi: ognuno prepara la propria lezione e la espone a un pubblico neutro. Potrebbero tranquillamente essere sostituite da testi scritti e non cambierebbe nulla. C’è poco dibattito e voglia di confrontarsi, anche nelle riviste di architettura, che in teoria sarebbero il luogo più adatto a fare critica. Non c’è più attenzione civica, sono tutti di corsa e c’è una superficialità diffusa. Le cose si attraversano, non si coglie più nulla. Forse anche per questo vanno molto i grandi oggetti icona e non ci si sofferma a guardare i dettagli costruttivi e la relazione con la città.

Chiudiamo con un’idea per Milano, per valorizzarla agli occhi di chi la vive e chi la visita.

Facile: un museo della città. Milano ha il maggiore concentrato di archivi privati di architettura e design, e sarebbe giusto avere un luogo che li contenga. Trovo che oggi ci sia più che altro la consapevolezza di quanto la città sia importante a livello di scambi, ma non l’intelligenza di fare tesoro del proprio costruito. All’interno di questo luogo immaginario si potrebbero confezionare dei racconti attorno ai singoli edifici, coinvolgendo archivi e fondazioni interessate, per costruire una sorta di banca dati visiva e documentale. Sarebbe un format facile e richiederebbe investimenti minimi.

Giovanni Muzio, 1980. Foto: Gabriele Basilico.

Giovanni Muzio, 1980. Foto: Gabriele Basilico.


Loredana Mascheroni

Giornalista, pratica il design da sempre. Appassionata di arte contemporanea e architettura, lavora a Domus dal 1997 dopo un apprendistato decennale in riviste di settore e un esordio come giornalista TV che le ha lasciato un debole per le video interviste. Fa yoga e corre, per sciogliere le tensioni da tablet.


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