24 Aprile 2018
L’eterno ritorno della moda, la circolarità delle sue forme espressive: uno sterminato universo creativo fatto di elementi che si influenzano a vicenda, che si alimentano di idee – tra architettura, arte, design e abiti tout court. Ma di tout court c’è poco in una dimensione, quella della moda, in cui la continua contaminazione alimenta la produzione e dove la parola cultura è un termine ancora poco approfondito. L’occasione per una riflessione sul tema è offerta da Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001, un progetto in forma di mostra e libro che racconta la moda italiana in un periodo cruciale: dalla nascita del prêt-à-porter con Walter Albini e la grandiosa stagione del Made in Italy, fino ai globalismi dei primi anni 2000. Un pezzo di storia d’Italia indagato attraverso le lenti della moda. La mostra, in programma fino al 6 maggio al Palazzo Reale di Milano, segue un ordine tematico che si sviluppa in nove sale, e alterna abiti, accessori e fotografie dei grandi stilisti con le opere di artisti contemporanei, ripercorrendo un periodo di formidabile creatività. Ne abbiamo parlato con Maria Luisa Frisa, studiosa, critica e fashion curator, che ha ideato e curato il progetto insieme a Stefano Tonchi, direttore di W Magazine.
Da dove nasce l’idea della mostra?
Italiana nasce dalla consapevolezza che la nostra moda presenta caratteristiche e qualità specifiche, e che occorre costruire situazioni e progetti capaci di illuminarle, o semplicemente di raccontarle. Il sottotitolo, L’Italia vista dalla moda, dichiara che il punto di vista adottato è quello della moda, e allo stesso tempo indica l’ambizione di raccontare un fenomeno sociale e culturale nel suo complesso.
Italiana si può considerare come un proseguimento della mostra Bellissima al Maxxi di Roma?
Italiana continua il lavoro di lettura e rilettura della moda italiana che conduco da alcuni anni. Certamente è in sintonia con Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945-1968, ed è animata dalle stesse intenzioni. Il periodo, però, è più lungo e articolato, un trentennio cruciale per la definizione dell’identità della moda italiana, fino alla soglia del nuovo millennio e alla sua trasformazione in fenomeno globale. Inoltre, diversamente da Bellissima, l’atteggiamento storiografico è meno presente, filtrato dalla dimensione autobiografica. Per questa ragione, preferisco parlare di racconto o narrazione.
Nel saggio introduttivo al libro lei parla di militanza.
Sì, la militanza è determinata dall’urgenza di far parlare la nostra moda, affermandone l’identità e l’importanza in ambito internazionale, e sottolineando i tratti distintivi del sistema moda italiano. Parlo di militanza anche per sottolineare la natura programmatica del progetto.
Il percorso inizia nel 1971 e si chiude nel 2001. Che significato hanno queste date? Si potrebbe pensare a una sorta di “terzo capitolo” come proseguimento della narrazione espositiva?
Come data, il 1971 fissa l’inizio della stagione del prêt-à-porter italiano. In quell’anno Walter Albini sceglie Milano per la prima sfilata della linea che porta la sua firma. La data di chiusura, il 2001, è emblematica: il passaggio fra i due secoli è il momento in cui la moda italiana cambia pelle e si trasforma in un fenomeno globale ancora oggi poco indagato. È anche l’anno in cui il sistema internazionale viene radicalmente messo in discussione dall’attacco alle Torri Gemelle. Dal 2001 a oggi abbiamo assistito a un’accelerazione: il sistema è cresciuto moltissimo e sempre più velocemente, si è trasformato nelle sue forme e anche nei modi di creazione e produzione. Nel 2011, attraverso il libro Una nuova moda italiana, edito da Marsilio, ho cercato di raccontare una generazione di fashion designer che oggi concorrono a dare forma e continuità all’identità italiana: una costellazione di nomi, più o meno conosciuti, capace di metterla in discussione e ridefinirla. Immaginando un nuovo progetto espositivo, successivo a Bellissima e Italiana, terrei di sicuro a mente come punto di partenza il lavoro fatto per quel libro.
In Italia, la moda non è ancora vista pienamente come elemento inseribile in un contesto museale. Cosa ci manca per dialogare alla pari con i musei e le istituzioni che all’estero si occupano di moda?
Le ragioni sono molteplici e il progetto Italiana nasce proprio dalla consapevolezza che l’Italia, nel tempo, non ha assegnato alla moda quel ruolo culturale che oggi ci permetterebbe di dialogare alla pari con i musei e le istituzioni che all’estero si occupano di moda come il Palais Galliera e Les Arts Décoratifs a Parigi o il Victoria and Albert Museum a Londra. Nel nostro Paese i musei non mancano – penso al Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti, al Museo del Tessuto di Prato, a Palazzo Morando a Milano – ma nessuno ha un carattere nazionale e ha come missione la tutela e la promozione della moda italiana. Le associazioni di categoria spesso non sono in relazione tra loro. I collezionisti privati, fondamentali per realizzare progetti espositivi come Bellissima e Italiana, non ricevono un riconoscimento istituzionale. E poi c’è tutto il tema della formazione, per me cruciale. Le università che trattano la moda in modo serio come disciplina da trasmettere anche nella dimensione laboratoriale sono pochissime, e il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca per ora non ha prestato ascolto alle sollecitazioni.
La moda italiana è spesso percepita solo come un prodotto esclusivo che nasce da una straordinaria sapienza artigianale. Creatività e Made in Italy vengono considerati la stessa cosa, ma non è così.
È vero. Occorre costruire una visione alternativa, fuori dagli stereotipi e dalle solite etichette. Solo così possiamo aggiornare l’idea di Made in Italy e considerarla nel suo vero significato: un buon prodotto fatto in serie che vede in azione il designer, l’azienda, il tecnico – anche l’artigiano, ma solo in una dimensione di ricerca. La moda italiana non può essere ridotta all’esperienza super-specialistica del fare artigianale. Gli attori del sistema producono, ma soprattutto immaginano. E sono capaci di intercettare e disegnare i desideri.
Lei insegna, quanto è ancora lungo il percorso di affermazione della moda come disciplina con dignità di insegnamento?
In qualità di direttore del corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali all’Università Iuav di Venezia, lavoro quotidianamente in questa direzione. Solo eliminando, all’interno dell’università, i pregiudizi che ancora confinano la moda al di fuori delle discipline con dignità di insegnamento, saremo in grado di riconoscerle il giusto peso non solo culturale, ma anche politico, economico e sociale.
In che modo l’insegnamento può avere positivamente influenzato la sua attività curatoriale?
Insegnamento e attività curatoriale sono per me totalmente integrate. Nell’ambito del corso di laurea magistrale in Arti visive e moda allo Iuav insegno Pratiche curatoriali della moda, affrontando con gli studenti la complessità del fashion curating.
Ci parli del percorso della mostra e delle sue nove sale tematiche.
Il percorso della mostra non segue la linearità cronologica, ma prende corpo in un gruppo di temi, tenuti insieme da una lettura critica. Italiana attraversa nove temi: Identità, Democrazia, In forma di logo, Diorama, Project Room, Bazar, Postproduzione, Glocal, L’Italia degli oggetti. A ciascun tema corrisponde una stanza del percorso espositivo. Tutto è disposto come una sorta di inventario aperto, con collegamenti che si moltiplicano in varie direzioni. Ogni stanza, seppur focalizzata su un’area concettuale, è in stretta relazione con le altre. Sicuramente, i tre cardini del racconto sono Identità, Democrazia e Postproduzione, intesi come punti di snodo fondamentali per caratterizzare il periodo storico indagato e per restituire un’immagine fluida dell’evoluzione della moda italiana lungo questi trent’anni.
Parlando della sala Identità, come si è evoluto nel tempo il concetto di moda femminile e quello di moda maschile? E come si evolverà la fluidità di genere che vediamo oggi in passerella?
Credo che Identità sia un tema cruciale di Italiana poiché rivela, in maniera cristallina, come la moda sia un sistema che lavora sempre sul passato, pur innovandosi continuamente. Questo è evidente a partire dall’immagine-manifesto del progetto, una fotografia di Oliviero Toscani tratta dal servizio “Unilook. Lui e lei alla stessa maniera”, pubblicato nel 1971 su L’Uomo Vogue. Toscani ritrae una giovane coppia che si tiene per mano e guarda dritto nell’obiettivo. Entrambi hanno i capelli lunghi, indossano il doppiopetto grigio e sono alti quasi uguali – anche grazie ai tacchi di lei. Quest’immagine non racconta di una donna che rifiuta la sua femminilità e neppure di un uomo effeminato. Piuttosto, mette in luce una volontà di cancellare tutte le differenze. La moda italiana, fin dal momento dell’affermazione del prêt-à-porter, immagina una relazione diretta fra maschile e femminile, fuori dagli stereotipi di genere (emblematico in questo senso è il lavoro di Walter Albini e Giorgio Armani); progetta l’immagine e la silhouette femminile negli anni cruciali che vedono affermarsi il femminismo, riconosce alla donna un ruolo centrale nella società con l’invenzione del power suit, definisce le nuove forme di una seduzione attiva. Simultaneamente, inventa la categoria dell’uomo-moda, desideroso di emanciparsi dalle rigidità dell’uniforme borghese per affermare una sensibilità diversa, in direzione di forme più morbide. Oggi più che mai, maschile e femminile non sono solamente generi che identificano due fisicità e mentalità diverse, ma vanno intesi come attitudini al vestire che superano le differenze tra i sessi e mescolano le caratteristiche di entrambi verso una nuova definizione di a-sex: un genere che combina caratteri opposti e veste un corpo che culturalmente perde gli attributi del genere stesso. Illuminante, in questo senso, è il lavoro condotto da Alessandro Michele per Gucci che è insieme una negazione dell’identità erotica del marchio, nella forma in cui eravamo abituati a considerarla, e una sua evoluzione. Una sessualità in transito, di una generazione astratta e pensierosa. I corpi che Michele ha in mente ci fanno sembrare vecchi tutti i violenti stereotipi di genere.
Il dialogo e la conversazione tra i capi e le opere d’arte esposte a Palazzo Reale sono elementi preponderanti di un’indagine estetica che si compie nel tempo. Quanto è importante saper guardare al passato nella moda di oggi?
Italiana mette a fuoco alcuni tratti della moda italiana, e nel contempo la mette in relazione, in un aperto confronto, con l’arte e il design, così da poter ripristinare quel territorio comune di dialogo in cui la moda da sempre agisce in risposta alle sollecitazioni più eterogenee. Accanto agli abiti, oltre centoventi, ci sono le opere di undici artisti italiani: Michelangelo Pistoletto, Maurizio Cattelan, Elisabetta Benassi, Luciano Fabro, Francesco Vezzoli, Vanessa Beecroft, Luigi Ontani, Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Ketty La Rocca, Gino De Dominicis. Sono autori affermati, alcuni storicizzati, le cui visioni hanno superato i confini nazionali, parlando una lingua globale. Nonostante questo, alcuni lavori selezionati sono connessi in profondità alla nostra cultura e alla nostra storia. Altri, invece, avvicinano in modo più esplicito il territorio della moda a quello dell’arte contemporanea. Per rispondere alla sua domanda, la moda è circolare, ha un rapporto simultaneo con il futuro e con il passato. Questo la costringe a un eterno ritorno, anche se in realtà le forme non si ripetono, ma mutano costantemente, modellate di volta in volta dalle attitudini del gusto che le ha riportate in superficie.
C’è un capo o un’opera d’arte, nella mostra, che l’ha colpita maggiormente o a cui si sente più legata?
Per me ogni mostra è un organismo complesso in cui ogni oggetto vive in relazione agli altri. Ogni mostra è una nuova opera in cui ogni singolo pezzo contribuisce a raccontare una storia, a dare una interpretazione. Per questa ragione, tutte le opere presenti in mostra, che sono sempre scelte con molta attenzione, hanno un grande valore per me.
Mi dica una cosa che non sopporta, nella moda e non solo.
Sono una persona curiosa, ho sempre voglia di capire e di approfondire. Forse la cosa che non sopporto è la semplificazione, la paura di affrontare la complessità, che inevitabilmente porta con sé una serie di chiusure e preconcetti.