12 Giugno 2013
In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare. Il cammelliere che vede spuntare all’orizzonte dell’altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate…
Italo Calvino, Le città invisibili (I capitolo: Le città e il desiderio, 3)
Mi trovo all’Arsenale, la fabbrica navale dell’antica Repubblica di Venezia. Nella mia mente riecheggia un passo dell’Inferno dantesco: immagino gli spazi dell’edificio ribollire di pece nera, la stessa di cui i veneziani, proprio qui, si servivano per rispalmare le navi danneggiate dalle guerre. Imbocco le corderie – il luogo in cui si producevano, un tempo, le funi per le barche – e cerco un primo approdo sicuro. Ed è in questo punto che ritrovo il Palazzo Enciclopedico di Marino Auriti, incipit ideale alla prima sezione della mostra. Mi colpisce la torre centrale, a metà tra una piramide maya a gradoni e un prezioso grattacielo art-déco, contenitore del sapere universale e simbolo di questa stessa Biennale – intrico di forme, immagini e oggetti disparati, riuniti in un’unica camera delle meraviglie. Proseguo nel mio itinerario enciclopedico, una sorta di progressione (secondo le parole di Gioni) “dalle forme naturali a quelle artificiali” – wunderkammer dal carattere eccentrico e incompleto. È così che mi imbatto in una serie di campionari e tassonomie della natura: le fotografie di uccelli di Eliot Porter, i cuori-foreste di Lin Xue, le chiocciole spiraliformi di Ştefan Bertalan. Si tratta di inventari fortemente soggettivi, pervasi da uno slancio romantico – lungi da un’esatta operazione di mappatura positivista del reale.
Mi aggiro tra i lavori esposti nelle sale delle corderie, un compendio irregolare di opere d’arte, idoli-feticci e testimonianze etnografiche. Il possente meteorite-menhir di Roberto Cuoghi torreggia al centro di una stanza: pare alludere a un Olimpo primordiale – mi ricorda la materica consistenza di un universo remoto. Universo di cui rispolvero la storia osservando il video di Camille Henrot, sorta di Genesi contemporanea in versione pop – riproposta, qualche sala dopo, in veste di epica graphic novel da Robert Crumb. Il resoconto cronachistico del principio del mondo preannuncia l’immagine della sua fine: è così che incappo nelle anime filiformi dei Venetians di Pawel Althamer, ritratti disossati degli abitanti di Venezia, erranti come in un limbo prima di ricongiungersi alla materia da cui sono stati plasmati. Immediatamente un campionario di corpi-fantocci, bambole e maschere rituali si apre al mio sguardo: è questa la piccola camera delle meraviglie allestita da Cindy Sherman, esperimento di meta-curatela, inteso a generare inquietudine e stupore nell’osservatore curioso.
Oltrepasso il microcosmo isterico dei video di Ryan Trecartin, popolato da una parata di personaggi istrionici e improbabili – compendio di un’umanità esasperata, quella della società dello spettacolo. Per un momento sosto dinnanzi al video di Yuri Ancarani, una coreografia meccanica inscenata dagli arti di un robot chirurgico. Ed è proprio la precisione, l’esattezza dei movimenti robotici a predisporre il mio stato d’animo alla scultura che conclude il percorso dell’Arsenale: Apollo’s Ecstasy di Walter De Maria. La successione in diagonale delle aste cilindriche in bronzo dorato accenna a un catalogo di forme armoniche – genera per un momento l’illusione della possibilità di una classificazione rigorosa del reale. Ideale “apollineo”, quest’ultimo, o sogno illuminista, la cui inconsistenza pare annunciata dal suono stanco di alcuni fiati in lontananza: sono le trombe della “dionisiaca” barca S.S. Hangover di Ragnar Kjartansson, arenata nel bacino delle Gaggiandre. Quello che esce dalle bocche degli ottoni è un moderno inno a Bacco – espressione di un’energia estatica, immaginifica, che conduce l’uomo al desiderio febbrile (e mai pienamente realizzabile) di riassumere il mondo intero in un’immagine. Lentamente, la chiatta abbandona gli ormeggi e le vele scivolano dietro i pilastri degli archi sansoviniani. È tempo di cambiare rotta: direzione Giardini.
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