Francesco Jodice
“L’arte produce caos”

1 Luglio 2016

Uno scheletro in ferro si snoda lungo il corridoio dell’edificio che ospitò la prima scuola pubblica del Regno d’Italia, ora sede di Camera – Centro Italiano per la Fotografia, a Torino: raccoglie la moltitudine di materiali accumulati in vent’anni di attività da Francesco Jodice (Napoli, 1967), da sempre impegnato in un’indagine sullo scenario geopolitico contemporaneo. Si tratta di Panorama, la prima grande ricognizione dedicata al lavoro dell’artista, a cura di Francesco Zanot e accompagnata da un omonimo libro edito da Mousse Publishing. Abbiamo incontrato Jodice nel suo studio di Milano, dove vive, alla scoperta delle motivazioni che muovono l’opera di una tra le figure più dense e multiformi della cultura visiva italiana recente.

Come si colloca Panorama all’interno del tuo percorso?

Non so che impressione ne abbia chi visita la mostra, ma di sicuro per me si è trattato di un’occasione per riflettere sui punti di forza del mio lavoro, e soprattutto sulle sue debolezze: per capire in quali momenti non sia riuscito a produrre una massa critica rispetto alla storia contemporanea.

Francesco Jodice, Capri, The Diefenbach Chronicles, #003, 2013.

Francesco Jodice, Capri, The Diefenbach Chronicles, #003, 2013.

Trovi che negli anni la tua ricerca ti abbia portato a una maggiore chiarezza rispetto alla nostra storia, o che al contrario lo scenario sia sempre più difficile da decifrare?

Attualmente mi trovo in una condizione di grande perplessità: negli ultimi due anni mi sono dedicato in modo convulso e approfondito all’osservazione e al racconto della fine del Secolo breve e della cultura occidentale. Mostre come Weird Tales, il film Atlante realizzato per Palazzo Fortuny a Venezia, l’installazione American Recordings e il progetto in corso Sunset Boulevard, dedicato alla corsa all’oro di fine dell’Ottocento, in America, sono lavori solo apparentemente isolati, in termini narrativi e formali: in realtà, costituiscono i capitoli di unico racconto che cerca di mettere a fuoco dove ci troviamo in questo momento come occidentali. Nei giorni successivi all’inaugurazione di Panorama, quando per la prima volta ho potuto osservare nel loro insieme i miei vent’anni di lavoro, ho iniziato a pensare di potermi avvicinare maggiormente alle questioni sociali e culturali di mio interesse senza dovermi per forza riferire a una geografia definita o a un momento storico preciso – come ho fatto finora.

Francesco Jodice, What We Want, Mazara, R14, 2000.

Francesco Jodice, What We Want, Mazara, R14, 2000.

Nella tradizione fotografica, il termine documentario implica da parte dell’autore una consapevolezza del proprio ruolo storico: la fotografia è lo strumento per preservare la memoria di uno stato attuale, di cui si intravede un imminente cambiamento. Ti rivedi in questa definizione? 

La fotografia, essendo dagli anni Ottanta in poi entrata definitivamente nel novero dei “giocattoli” contenuti nella scatola dell’arte, ha assunto una caratteristica tipica dei linguaggi artistici di lungo corso: essere contemporaneamente ciò che sono sempre stati e ciò che diventano giorno per giorno. Penso, per esempio, alla fotografia nella generazione di Instagram, al suo rapporto con la cinematografia, all’uso dell’immagine in chiave autopromozionale, con i selfie, e soprattutto alla computer graphics. La quasi totalità del mondo video-ludico, il più potente tra quelli che fanno uso di immagini, consiste perlopiù nella ricostruzione di scenari: la realtà virtuale, Oculus Rift. La fotografia, all’interno di una tecnologia così iperrealista, si trasforma a tal punto da diventare anti-documentale. Questo consente agli autori più consapevoli di agire secondo un effetto fisarmonica: stare molto lontani dalla documentalità, oppure prendere il banco ottico e andare nelle frange del paesaggio con uno spirito vicino a quello dei padri della fotografia italiana (da Felice Beato a Guido Guidi), raccontando la realtà con fedeltà. Credo che sia importante sapersi muovere con disinvoltura e consapevolezza: usare la fisarmonica al massimo della sua apertura, in piena libertà tra documentario e realtà virtuale, ma farlo con la stessa perizia con cui, come affermava Garry Winogrand, siamo responsabili per ogni spostamento dell’asse della camera, dunque sentendoci eticamente investiti della responsabilità che ogni immagine realizzata debba produrre senso.

Francesco Jodice, What We Want, Tokyo, T03, 1999.

Francesco Jodice, What We Want, Tokyo, T03, 1999.

Il tuo lavoro è nato e cresciuto, anche per ovvie ragioni familiari, nel territorio delle arti visive. Se in molti devono spingere perché il loro lavoro entri nel sistema dell’arte, tu remi nella direzione opposta, diffondendolo al di fuori dei suoi confini. Mi viene in mente la tua esperienza alla Biennale di São Paulo nel 2010 dove, per contrastare l’esclusività delle anteprime per i VIP, hai deciso di anticipare l’inaugurazione di Citytellers facendolo trasmettere in televisione.

Proprio per la mia cultura familiare, ho un ricordo, da bambino, non tanto di che cosa fosse l’arte, che non capivo e non mi interessava, ma di come si facesse: persone che si vedevano a casa di qualcuno, c’era chi si spogliava e iniziava a scriversi sul corpo, chi si alzava a declamare delle poesie, o che filmava un ragazzo per strada perché lo trovava bello. C’era qualcosa di compulsivo e anche un po’ naïf, ma c’era soprattutto l’idea, molto naturale, di intendere l’arte come una delle cose che si fanno nella vita. Ovunque e sempre. L’esempio della Biennale è molto importante, perché deriva da una lezione che ho imparato osservando quegli anni, e cioè che l’arte, oggi un sistema molto rigido e composto, debba trovare una sua forma di libertà. Da qui il mio tentativo di portarla proprio là dove non sembra essere ben accetta: è sbagliato pensare che la cultura di massa non sia pronta a ospitarla. Trovare delle meccaniche per rompere questo sistema, allontanarmi da questa forma di elitarismo, è la parte più interessante della mia ricerca. Portare il film São Paulo in televisione, scrivere un libro di narrativa come American Recordings, organizzare un drive-in dove si pasteggia a salamella, sono modi per attuare questo processo di sconfinamento. Se in questo processo non tutti i personaggi del mondo dell’arte dovessero sopravvivere, non è un problema. D’altra parte, siamo comunque in troppi.

Francesco Jodice, What We Want, Phi Phi Ley, R18, 2003.

Francesco Jodice, What We Want, Phi Phi Ley, R18, 2003.

Da molti anni insegni nelle accademie e fai formazione ai giovani nel tuo studio. Hai mai pensato di dedicarti a progetti esclusivamente curatoriali? 

Credo che l’insegnamento e la curatela siano pratiche molto distanti tra loro, almeno quanto insegnare ed essere artista. Insegnare per me significa da un lato esorcizzare un senso di colpa dovuto al vantaggio che so di avere avuto rispetto alla mia generazione, incolmabile per chi veniva da famiglie in cui i genitori facevano tutt’altro: la mia educazione è stata identica a quella di Karate Kid, un continuo e impagabile esercizio della visione. Dall’altro, stare in classe con gli studenti vuol dire essere pagati per rubare loro il lessico di oggi. Un’opportunità importante per chi, come me, ha paura di restare indietro e di non capire certi bisogni, consumi e apparati culturali, perlopiù legati alle nuove tecnologie. La curatela è una cosa molto complicata, fortemente sottovalutata in Italia. Per come la vedo io, il curatore dovrebbe sapere tutto ciò che riguarda l’arte, il passato e il presente: tutto ciò che è stato scritto e che è stato fatto, tutto quello che si scrive e che si fa oggi. Deve essere informato su qualsiasi nuovo fenomeno culturale che sta emergendo in giro per il mondo, dalla Malesia al Perù. Insomma, il critico-curatore deve essere una sorta di Superman! Questo si scontra incontrovertibilmente con la mia pigrizia. La mia cultura, peraltro, è circoscritta, puntuale, non generica: mi piace sapere tutto di una cosa piccola, laterale, generalmente anche inutile. L’arte invece, contrariamente al cinema horror americano degli anni Settanta, non è circoscrivibile per sua natura, deve parlare di tutti gli aspetti della vita. Quindi no, la curatela non mi interessa. Non credo nemmeno esistano curatori-artisti. Esistono, invece, molti bravissimi artisti-curatori: sono generalmente sudamericani, dell’Est Europa, albanesi. Questo accade perché provengono da contesti in cui, in assenza di un sistema, diventa necessario costruirsi l’habitat culturale nel quale esporsi.

Francesco Jodice, What We Want, Aral, T51, 2008.

Francesco Jodice, What We Want, Aral, T51, 2008.

Un sistema dell’arte fai-da-te, frutto di un’assenza e di un’urgenza. A che punto siamo in Italia?

Il parallelo di quanto sto descrivendo, in Italia, avviene nell’editoria indipendente. Dopo la generazione mia e di Armin Linke, per ragioni sia economiche sia culturali, questo paese non ha più avuto alcuna possibilità, né capacità, di sostenere gli autori. Di conseguenza, un’intera generazione recente di bravissimi artisti – come Mirko Smerdel, Alessandro Sambini e The Cool Couple – non ha trovato un sistema. Da un lato rifiutavano il contesto prettamente fotografico, dall’altro il sistema dell’arte li snobbava, perché, in termini di collezionismo, la fotografia ha sempre avuto valori di mercato troppo bassi. Quindi l’hanno fatto loro, il sistema. In Italia sono nati editori fenomenali per la cultura fotografica: Discipula, blisterZine, Humboldt Books e via dicendo. Fossero un paio, si potrebbe trattare di una casualità, ma quando diventano venti, di altissima qualità, si parla di casistica, di fenomeno. Questo non nasce perché all’improvviso qualcuno ha voglia di fare libri, ma perché in modo più o meno consapevole era necessario dare visibilità a tutta questa nuova produzione artistica. In quei casi, si verifica così un’unione tra produzione e curatela: l’esempio di Mirko Smerdel rappresenta il perfetto equilibrio tra artista eccellente ed eccellente editore, che fa delle scelte ed è quindi anche critico e curatore.

Francesco Jodice, Ritratti di classe, Torino, #002, 2005.

Francesco Jodice, Ritratti di classe, Torino, #002, 2005.

A proposito di curatela, in occasione di Panorama hai letteralmente messo il tuo lavoro nelle mani di Francesco Zanot, un atto di fiducia che fa seguito a una sinergia di lunga data. Come avete realizzato insieme la mostra?

Nonostante abbia avuto in passato la fortuna di lavorare con importanti professionisti internazionali – Okwui Enwezor, Hans-Ulrich Obrist, Lisette Lagnado e tanti altri –, non sono molto bravo con i curatori, perché purtroppo ho una scarsa disponibilità a far trattare il mio lavoro. Con Francesco Zanot è andata diversamente. Pur essendo amici di vecchia data, era la prima volta che lavoravamo insieme. Da un lato, lui è stato molto bravo a entrare a gamba tesa, esprimendo l’idea che si era fatto del mio lavoro, quindi imponendo un modus operandi. Dall’altro, forse per il fatto di voler chiudere il capitolo del ventennale, è come se avessi avuto voglia, per la prima volta, di arrivare in un posto dove ti è stata organizzata una festa a sorpresa. Per cui, entro certi limiti, sia la mostra sia il libro sono frutto del lavoro di Francesco.

Come è stata concepita Panorama in termini spaziali? 

Lo spazio di Camera è molto bello e prestigioso, ma fisicamente difficile, perché rigido: sei stanze consecutive, un corridoio. Abbiamo deciso fin da subito di lavorare affinché fosse lo spazio a dare forma alla mostra. Nelle stanze ci sono progetti messi in scena in una forma espositiva sacrale e ieratica, da osservare senza interazione: sono le opere compiute, nella loro massima espressione formale. Nella prima sala, per esempio, l’unica opera fotografica del progetto What We Want è la grande immagine di Hong Kong, posta circa 25 centimetri al di sopra del punto di osservazione considerato corretto per una fotografia di quelle dimensioni, proprio per dare un effetto di grandiosità. Le sale impongono un atteggiamento rispettoso, tipico dell’opera d’arte. Al contrario, nel corridoio tutto si sporca. Il tavolo progettato dall’architetto Roberto Murgia, largo 50 cm e lungo quasi 50 metri, cambia continuamente modulazione di frequenza: seduta, tavolo, bancone, porta e arco. Qui puoi toccare prove di stampa, ascoltare brani musicali, sfogliare libri, guardare filtri cinematografici, leggere testi e molto altro. Questa era l’idea fondamentale: una mostra dove l’opera d’arte, lo studio, il processo e il metodo fossero equivalenti. Il libro agisce allo stesso modo: le opere poggiano sulla base grafica, mentre la parte metodologica è appesa al margine superiore della griglia dell’impaginato. In alcuni casi, i frammenti del processo sono anche più belli delle opere finite.

Francesco Jodice, La notte del drive in. Milano Spara, 001, 2013.

Francesco Jodice, La notte del drive in. Milano Spara, 001, 2013.

Impegno, attenzione, comprensione: sono termini imprescindibili per chiunque si affacci al tuo lavoro. Allo spettatore è richiesto uno sforzo, tanto che per apprezzare interamente la mostra hai calcolato circa 24 ore di visita. In un esercizio così focalizzato sulla ricerca e lo studio, qual è la tua idea di bellezza e in quale fase del lavoro si rivela? 

A oltre un secolo di distanza, rimango un convinto assertore della teoria espressa da Adolf Loos in Ornamento e Delitto, e cioè che la bellezza sia la naturale conseguenza della produzione di un significato. Rimanendo in ambito di citazioni, sono altrettanto convinto dell’aforisma latino mens sana in corpore sano, ma con i termini invertiti: il corpo è sano e bello quando la mente è sana. Il nutrimento intellettuale produce bellezza, altrimenti diventiamo tutti come Chiara Ferragni. L’arte produce bellezza quasi fosse una sorta di derivato, un effetto collaterale. L’artista non è un designer, un grafico, un decoratore. Per spiegare qual è per me il vero senso della pratica artistica, ricorro spesso all’esempio dell’opera di Santiago Sierra in cui, con i soldi della municipalità, l’artista fa affittare dei camion a dei clandestini che bloccano alcune arterie stradali e poi scappano via (Obstrucción de una vía con un contenedor de carga, 1998, nda). Qualcuno magari muore, perché doveva fare una emodialisi e si è trovato la strada bloccata. L’arte non si occupa né di produrre miglioramenti della società, che è il compito della politica, né di produrre bellezza prevedibile – per quello ci sono gli architetti di parchi e giardini. L’arte produce caos, e il caos serve a farci chiedere il perché di ogni cosa. Una delle conseguenze di questo caos, unico vero scopo dell’arte, è la bellezza. Come diceva Gaston Bachelard, il punto non è riconoscere le cose, ma osservarle tutte come fosse la prima volta.

Francesco Jodice, Cartoline dagli altri spazi, #002, 1996.

Francesco Jodice, Cartoline dagli altri spazi, #002, 1996.

Fin dal tuo primo lavoro, Cartoline dagli altri spazi, ti sei interessato all’abitare collettivo, con una presenza crescente della figura umana ritratta nella sua individualità. Come si relaziona l’identità del singolo con il tentativo di osservare il paesaggio contemporaneo nella sua dimensione corale?

I miei progetti nascono da un atteggiamento analitico, lucido, poco emotivo. Studiando fotografia, ero rimasto molto colpito dalla postfazione di Viaggio in Italia (a cura di Luigi Ghirri, Il Quadrante, Alessandria, 1984, nda), dove la scomparsa della figura era giustificata dalla necessità di raccontare storie non più attraverso le persone, ma attraverso le cose che appartengono loro. Quella stagione arrivava al termine del Neorealismo, dove la presenza umana era arrivata all’eccesso. Quando ho iniziato a lavorare, alla fine degli anni Novanta, venendo da una facoltà di architettura avevo la netta impressione che il paesaggio italiano fosse fisicamente immobile. Diversamente, il paesaggio umano stava iniziando a cambiare. Non avendo una storia colonialista, era la prima volta che iniziavamo a vedere, per esempio, degli stranieri. I referendum sull’aborto e il divorzio, promossi e vinti dal Partito Radicale quando ero ragazzino, avevano cambiato definitivamente la forma della famiglia italiana. Ho sentito quindi la necessità di reinserire la figura umana nel paesaggio e ho affrontato quest’operazione in modo puntuale, costruendo un rapporto 1:1: una figura, uno scenario. Tale atteggiamento si ritrova in Cartoline dagli altri spazi, Abitudini temporanee, ma anche nel progetto Prado. Ciò che conta in questi progetti è l’accumulo, la serialità, la densificazione. Ciascuno costruisce un monotipo fotografico ripetuto, dove scenario e figura sono le varianti. Spesso cambia il sistema di relazione: in Cartoline dagli altri spazi la figura è piccola, anche se fortemente regolatrice rispetto allo scenario urbano; in Abitudini temporanee si inverte tutto e l’immagine diventa verticale, mentre le altezze cambiano in funzione del processo “antropometrico” della mia fotografia (così come definito da Lea Vergine): la figura diventa talmente importante da deformare il quadro. In Ritratti di classe, dove ho ripreso la tradizionale immagine scolastica che veniva scattata dal fotografo di paese, questo aspetto ha iniziato a ospitare la moltitudine, ma il principio è lo stesso: la fisiognomica diventa così preponderante da limitare lo sfondo a pochi brandelli di paesaggio. La città si intravede tra figura e figura.

Francesco Jodice, Mont Blanc, Just things, #004, 2014.

Francesco Jodice, Mont Blanc, Just things, #004, 2014.

In un’altra occasione, parlando di Primo lavoro, spiegavi che l’immagine satellitare, in quanto automatizzata, crea un immediato senso di autorevolezza. È un effetto che ricerchi nelle tue fotografie? 

Prendendo due estremi, possiamo immaginare che la massima latitudine tra due fotografie sia la seguente: da un lato quella satellitare, un occhio tecnologico che in modo scientifico o casuale produce delle immagini; all’opposto, quella vernacolare, scattata da un genitore al compleanno di suo figlio. La prima prescinde da qualsiasi occasione: non solo è anti-celebrativa, ma è a tutti gli effetti disumanizzata, perché esclude qualsiasi dispositivo o apparato culturale pregresso. Contrariamente, la fotografia di una festa non è solo mossa dall’emotività del momento, ma anche da tutte le immagini di compleanno viste, vissute, retoricamente riprodotte in un film. La mia è un’operazione leggermente differente: da un lato, con il mio lavoro cerco di parlare delle cose attraverso la costruzione di un filtro che rifiuti una partecipazione emotiva alla vita – diversamente dai reportage di Salgado, McCurry, Cartier-Bresson e Capa, per intenderci, strettamente legati al dato sentimentale. Al contempo, la mia non è una fotografia priva di un filtro culturale, ma tale filtro setaccia soltanto gli elementi retorici condivisi e rilevanti. Condivisi, perché fanno parte non più della festa privata, ma della festa cui tutti abbiamo collettivamente partecipato. Rilevanti, perché cerco di distillare quelle parti che possono avere un significato nel futuro prossimo. Prendo le distanze sia dall’emotività del contesto familiare, sia dall’assenza di qualsiasi sapere culturale. Questo è il codice fotografico che cerco di produrre.

Avendo lavorato sulle geografie di tutto il mondo, quanto i tuoi lavori possono essere considerati site-specific, quindi generati dalla realtà che stai osservando?

La mia attenzione verso la geografia e la geopolitica, in realtà, è conseguenza di un mio interesse verso un altro aspetto della vita: il futuro prossimo. Mi interessa indagare ciò che sta per accadere, che per paradosso è già accaduto: l’avvento nella cultura di un nuovo fenomeno è il precipitato di qualcosa che abbiamo, più o meno consciamente, premeditato. Il futuro è sempre conseguenza di qualcosa che abbiamo disordinatamente programmato nel passato prossimo: è questo il motivo per cui lavoro sempre in territori dove credo stia per accadere qualcosa di sensazionale. Le geografie dove mi muovo sono rilevanti, ma anche pretestuose: Citytellers comprende tre film, rispettivamente girati a Dubai, Aral e São Paulo, perché volevo parlare di auto-organizzazione, della sparizione dei grandi eventi idealistici del Novecento (il comunismo, in Aral) e della nostra nuova forma di disponibilità allo schiavismo. Potevo realizzarli anche in altri luoghi, ma questi tre mi pareva semplificassero in modo chiaro un fenomeno specifico: il futuro prossimo che era già presente nel passato più recente. La verità, e lo dimostra What We Want con i suoi 150 luoghi, è che il singolo luogo e il singolo fenomeno mi interessano molto poco. Mi interessa sapere, invece, cosa succede quando centinaia di nuovi comportamenti iniziano a confliggere: se si osserva questo crepitio, questo progressivo assestamento, si ha un’idea panottica della realtà. A questo riguardo, sono influenzato dal titolo di un libro immaginario scritto da un geologo immaginario, il protagonista di Lento ritorno a casa di Peter Handke, che perde la memoria e scrive un piccolo trattato di geologia dal titolo Comparazione di fenomeni simili in distinte parti della terra.

Dopo assetti e geopolitiche globali, in conclusione, una domanda sulla tua geografia privata. Perché non sei mai andato via dall’Italia? 

Il principio secondo il quale metto in relazione il modo in cui vivo e quello in cui lavoro è lo stesso di un hikikomori: vivo chiuso all’interno di una roccaforte di cose che mi danno piacere e soddisfazione, con un sincero senso di ostilità verso la collettività in cui vivo. Mi piace pensarmi come un antropologo alieno che, osservando gli uomini sulla terra, si chiede: “Ma cosa fa quel signore anziano, vestito di bianco, con il cappellino in testa e le scarpe di seta, che pontifica sulla vita di tutti pur non avendone esperienza?”. Non credo che oggi si debba essere a New York, Tokyo o Londra, per capire cosa sta accadendo in Malesia, anzi, si corre il rischio di diventare terribilmente provinciali. Si può benissimo, invece, lavorare alla Salgari, stando chiusi in un posto e usando tutto ciò che la rete e la pubblicistica offrono per avere davanti un panottico eccellente. L’importante è fare sì che la roccaforte che costruiamo sia in una condizione atmosferica perfetta: tutto deve essere nitido. Un luogo dove l’osservatorio a 360 gradi funzioni.

Francesco Jodice, Panorama, Camera Torino, 2016.

Francesco Jodice, Panorama, Camera Torino, 2016.

Francesco Jodice, Panorama, Camera Torino, 2016.

Francesco Jodice, Panorama, Camera Torino, 2016.

Francesco Jodice, Panorama, Camera Torino, 2016.

Francesco Jodice, Panorama, Camera Torino, 2016.


Ilaria Speri

Vive a Milano da diversi anni, dove si occupa di fotografia e dintorni. Collabora a progetti espositivi ed editoriali, in particolare con il collettivo curatoriale Fantom. Insegna Storia della fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel frattempo fa ricerca, studia e scrive per mostre, libri e riviste.


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