Hiroshi Sugimoto
“La fotografia è finita”

15 Settembre 2017

Dagli anni Settanta a oggi Hiroshi Sugimoto ha prodotto un corpus di fotografie fortemente riconoscibile: orizzonti marini, teatri, drive in e diorami. Icone silenziose, vocate all’essenzialità e strappate allo scorrere del tempo, che colpiscono lo sguardo come archetipi di una civiltà ancora pervasa da un senso di eternità. La tecnica fotografica di Sugimoto è sempre la stessa: suggestione unica del grande formato e grazia del bianco e nero. L’artista però è noto anche per le sue sculture e i suoi interventi architettonici, e a ottobre inaugurerà la sede della sua fondazione a Enoura, un’ora da Tokyo. Lo abbiamo raggiunto alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dove è ancora in corso la mostra Le Notti Bianche, a cura di Filippo Maggia e Irene Calderoni.

Partiamo dagli inizi. Al liceo ti dedicavi alla pittura, poi hai scelto la fotografia. Come è avvenuto il passaggio?

È stato dopo la laurea all’Art Center College of Design di Los Angeles, in California, nel 1975. Mi stavo trasferendo a New York, volevo diventare un artista e scelsi intenzionalmente la fotografia invece della pittura. Ai tempi, però, nessuno usava la fotografia in campo artistico: l’unica scelta era dedicarsi alla fotografia commerciale, e così feci. Lavorai come assistente fotografo per qualche mese, poi capii che non era il mio destino. Intanto a New York stavo entrando in contatto con la scena artistica contemporanea.

Hiroshi Sugimoto, Teatro dei Rozzi, Siena, 2014. Summer Time.

Hiroshi Sugimoto, Teatro dei Rozzi, Siena, 2014. Summertime.

Che mostre visitavi a New York?

Dan Flavin, Ellsworth Kelly. Mi interessava l’Arte Minimalista, non l’opera dei fotografi.

In quegli anni i movimenti hippie e in generale molti tuoi coetanei si nutrivano di una spiritualità tradizionalmente associata a culture e religioni orientali. Il fatto di essere giapponese ha influenzato il tuo rapporto con la società americana?

Sì, ed era tutto nuovo per me. In Giappone avevo frequentato una scuola cristiana, quindi non avevo mai dato molto peso alla tradizione religiosa del mio Paese. Poi sono arrivato in California e lì tutti mi chiedevano del Buddismo. Così mi sono messo a leggere moltissimi libri sull’argomento, mi sono aggiornato.

Sei religioso?

Credo che arte e religione condividano le stesse origini nella storia dell’umanità, ma non pratico nessuna religione, l’arte per me è più importante. La mia ricerca artistica indaga la mente e il momento della nostra presa di coscienza, come esseri umani. La religione ha un ruolo fondamentale in tutto questo, perché ne interroga l’aspetto spirituale. Gli esseri umani sono stati molto religiosi per gran parte della loro esperienza sulla terra, poi si è affermata la scienza e negli ultimi cento anni hanno perso buona parte della loro vocazione spirituale.

Hiroshi Sugimoto, Teatro Comunale di Ferrara, Ferrara, 2015. II Conformista (Screen side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Comunale di Ferrara, Ferrara, 2015. II Conformista (screen side).

Ritieni che la scienza abbia preso il posto della religione nella nostra società?

Con l’ausilio della scienza le persone hanno cominciato a conoscere meglio la natura, una porzione di mondo fino ad allora sconosciuta, il cui controllo era associato alla presenza di una divinità. La verità è che quel mondo è ancora oggi, in gran parte, sconosciuto.

Il fascino per la natura e il passato si ritrova anche nella tua collezione di fossili, meteoriti e reperti preistorici. Per un po’ sei stato anche un mercante di oggetti antichi. Qual è, se c’è, il punto di contatto con l’arte?

Il mio metodo, come artista, richiede di studiare me stesso, per questo mi dedico anche alla collezione. Inoltre, quando tocco questi oggetti sento il passare del tempo.

Il tempo è protagonista assoluto nel tuo lavoro: penso alla celebre serie dei Seascapes e a quella dei Movie Theatres, che hai deciso di rivisitare in occasione della tua mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, intitolata Le Notti Bianche. Cos’è cambiato rispetto alla prima edizione dell’opera?

All’inizio si trattava di proiettare un film all’interno di un teatro. La scena era spettrale e la luce veniva diffusa solo dallo schermo. Io ero in mezzo, tra lo schermo e la platea, ma solo la macchina fotografica guardava il film: io la impostavo e uscivo.

In questa edizione dei Movie Theatres, dopo aver fotografato palcoscenico e schermo, per la prima volta hai ruotato l’obiettivo fotografico di 180° gradi verso la platea, che è completamente vuota. Volevi criticare il ruolo dello spettatore nella società odierna, l’uso che facciamo degli strumenti di registrazione della realtà?

La macchina fotografica, lo strumento in sé, è l’unico punto di vista: guarda, testimonia e scompare. È un concetto di ispirazione duchampiana. Non ci sono altri sguardi perché non ci sono spettatori, oppure sono invisibili, defunti.

Hiroshi Sugimoto, Ohio Theatre, Ohio, 1980. Dalla serie Movie Theatres. Courtesy: Hiroshi Sugimoto.

Hiroshi Sugimoto, Ohio Theatre, Ohio, 1980. Dalla serie Movie Theatres. Courtesy: Hiroshi Sugimoto.

Ho letto che all’ingresso del tuo studio di Chelsea a New York si trova una fotografia della ruota di bicicletta di Duchamp, il suo primo ready-made, accanto a una stampa della serie Theatres. Che cosa significa questo accostamento?

Marcel Duchamp è uno dei miei punti di riferimento, tutte le avanguardie storiche hanno avuto un grande ascendente su di me. Il motivo per cui ho associato le due immagini è che Duchamp ha influenzato me, mentre il mio lavoro è lì per mantenere uno sguardo sul presente, sulla realtà contemporanea. Credo sia importante dedicare molto tempo al proprio lavoro, mesi o anni, esaminarlo in profondità, prima di mostrarlo agli altri. Voglio dotare il mio lavoro di una forte presenza, perché è dalla presenza che valuto un’opera d’arte.

Se penso al tuo lavoro e a quello di Duchamp riconosco delle affinità nel rapporto con la realtà e con il suo superamento. Anche la tua è un’arte concettuale che tende a superare il tempo presente.

Sì. Quando guardi l’opera di Duchamp ti accorgi che spesso si situa nella quinta dimensione. Come artista cerca di entrare in uno spazio altro, fuori dal tempo presente. La sua arte è molto filosofica, si concede alla metafora e manca spesso di spiegazioni. Il suo lavoro è misterioso e poetico. Penso a Il Grande Vetro (1915-23): nessuno sa cosa stia accadendo, eppure ti cattura la mente. Continuo a osservarlo, e mantiene la sua forte presenza. Ho imparato molto da Duchamp.

Credi che l’arte di oggi veicoli troppe informazioni?

È come una carta da parati, e c’è una bella differenza tra la carta da parati e l’arte.

Hiroshi Sugimoto, Teatro all'Antica, Sabbioneta, 2015.

Hiroshi Sugimoto, Teatro all’Antica, Sabbioneta, 2015.

Scatti con una macchina fotografica analogica e stampi in bianco e nero, due scelte che dagli anni Settanta non hai mai rinnegato. Neanche all’indomani della rivoluzione digitale e del trionfo del colore. Cosa significano per te oggi? 

La fotografia digitale è facile, mentre è sempre più difficile tenere in vita la fotografia analogica, perché la pellicola è rara e la carta fotografica sta scomparendo. Devo preparare carte e solventi da solo, cosa che facevo già prima, ma adesso non ho un’alternativa. Nel mio studio facciamo fotografia alla vecchia maniera, e oggi è ancora più importante. Sono l’ultimo sopravvissuto di questa tradizione fotografica, e ne vado fiero.

Immagino ci siano altri effetti collaterali, nel caso dei viaggi, per esempio. Quanto pesa l’attrezzatura?

I miei assistenti trasportano oltre cento chilogrammi. Non viaggio leggero.

E poi la fotografia analogica, al contrario di quella digitale, è frutto di un processo. Come lo gestisci?

Sì, ed è ancora lo stesso processo inventato nel 1839, anche se siamo nel XXI secolo. Quando scatto nei teatri allestisco una camera oscura per sviluppare le fotografie.

In una decade estremamente densa per la storia della fotografia, che ha visto eventi destabilizzanti come la chiusura di numerose agenzie fotogiornalistiche e l’affermazione dei social network, portatori di un’iconografia completamente nuova, il dibattito sullo status dell’immagine fotografica non solo non ha messo in discussione il valore del tuo lavoro, ma lo ha reso – se possibile – ancora più decisivo. 

Non discuto come va il mondo. Il mondo sta cambiando, io resto me stesso. Credo che con il XXI secolo ci sia stata la fine della fotografia. Oggi c’è un nuovo strumento, un nuovo linguaggio, ma non è più fotografia. La fotografia, inventata nel XIX secolo, era magica, fermava il movimento e registrava la storia. Quello status si è perso per sempre. Adesso scatti una fotografia e poi la trasformi come vuoi con Photoshop o altri programmi. La fotografia digitale ha poco a che fare con la realtà, è solo un ritaglio della nostra immaginazione.

Quando è successo che “la fotografia è finita”?

Nel 2012, quando Kodak ha dichiarato il fallimento. Kodak ha rappresentato la fotografia dagli esordi fino a quel giorno. Il dagherrotipo ebbe successo per un periodo limitato di 4 o 5 anni, ma fu il calotipo di Talbot a dare inizio alla fotografia, che è durata 170 anni. Non è poco, se ci pensi.

A ottobre inaugurerai un centro dedicato ad arte e performance a Enoura, un’ora da Tokyo. Si chiamerà The Observatory e ospiterà gli uffici della tua Odawara Art Foundation. Che ruolo hanno spazio e tempo in questo progetto?

Immagino The Observatory come una rovina, che durerà molto più a lungo di me e forse anche dell’umanità. Altri cinquemila anni, magari. È un Partenone, una camera oscura: è il centro da cui guardare il mondo. È posizionato di fronte all’oceano, puoi guardare il mare, è un’architettura speciale, realizzata per inquadrare il punto di vista ideale per solstizi ed equinozi. L’ho chiamato “osservatorio” perché unisce arte e astronomia. L’inizio e la fine dell’umanità implicano la visione, l’essere presente. Quanto tempo ci resta? Sono molto pessimista: nell’ottica capitalistica siamo destinati a continuare a crescere, ma ciò non può avvenire. Siamo cresciuti troppo e troppo in fretta, adesso dobbiamo tornare indietro.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Le Notti Bianche, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.

Hiroshi Sugimoto, Teatro Scientifico del Bibiena, Mantova, 2015. I Vitelloni (Screen_side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Scientifico del Bibiena, Mantova, 2015. I Vitelloni (screen side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Scientifico del Bibiena, Mantova, 2015. I Vitelloni (Seating side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Scientifico del Bibiena, Mantova, 2015. I Vitelloni (seating side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Olimpico, Vicenza, 2015.

Hiroshi Sugimoto, Teatro Olimpico, Vicenza, 2015.

Hiroshi Sugimoto, Villa Mazzacorrati, Bologna, 2015. Le Notti Bianche (Screen side).

Hiroshi Sugimoto, Villa Mazzacorrati, Bologna, 2015. Le Notti Bianche (screen side).

Hiroshi Sugimoto, Villa Mazzacorrati, Bologna, 2015. Le Notti Bianche (Seating side).

Hiroshi Sugimoto, Villa Mazzacorrati, Bologna, 2015. Le Notti Bianche (seating side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Goldoni, Bagnacavallo, 2015. Gattopardo (Screen side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Goldoni, Bagnacavallo, 2015. Il Gattopardo (screen side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Goldoni, Bagnacavallo, 2015. Gattopardo (Seating side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Goldoni, Bagnacavallo, 2015. Il Gattopardo (seating side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Comunale Masini, Faenza, 2015. Le Notti di Cabiria (Screen side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Comunale Masini, Faenza, 2015. Le Notti di Cabiria (screen side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Comunale Masini, Faenza, 2015. Le Notti di Cabiria (Seating side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Comunale Masini, Faenza, 2015. Le Notti di Cabiria (seating side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Farnese, Parma, 2015. Salò (screen side).

Hiroshi Sugimoto, Teatro Farnese, Parma, 2015. Salò (seating side).


Sara Dolfi Agostini

Curatrice e giornalista, vive tra l’Italia e gli Stati Uniti, ma spesso cambia rotta per visitare musei, biennali e studi d’artista. Specializzata in arte contemporanea e fotografia, è consulente scientifica della Triennale di Milano. Inoltre, ha co-curato il progetto di arte pubblica ArtLine Milano e scritto il libro Collezionare Fotografia (2010, con Denis Curti). Collabora con Il Sole 24 Ore dal 2008.


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