La città che comunica

5 Giugno 2017

In un’intervista del 2010 al settimanale The Atlantic, significativamente intitolata “The Man Who Reinvented the City”, Andres Duany, il fondatore del Neourbanesimo, ha espresso una tesi controversa e forte: la buona architettura non è cosa da stati democratici. La teoria riaffiora periodicamente negli ambienti specializzati, ma detta dall’uomo che più di trent’anni fa ha dato il via al movimento che ha tentato di coniugare architettura, umanesimo e sostenibilità risulta particolarmente stridente. Guardate le architetture di Parigi e di Roma antica, il reticolo perfettamente ordinato delle strade di Manhattan, dice Duany. Sono il frutto di un’operazione top-down, di un’imposizione dall’alto, non di un’azione democratica, collettiva, fondata sulla libera iniziativa. Per costruire una città ben ordinata, per pianificare da zero una qualsiasi impresa architettonica immane, serve un dittatore, o quanto meno uno stato non completamente democratico. Guardate la Cina: giusto il mese scorso il governo comunista ha annunciato la creazione di una nuova megacittà a un’ora da Pechino, un progetto mastodontico in cui saranno investiti quasi 300 miliardi di dollari e che consentirà, con sforzo non democratico, di cambiare l’urbanistica, l’economia e la sostenibilità di una regione in cui abitano decine di milioni di persone.

© Edison Media Center

© Edison Media Center

Duany parlava però nel 2010 – e da allora sono passati sette anni e un paio di rivoluzioni tecnologiche. La prima parola abusata che leggerete in questo articolo è big data. Se ne parla da anni, e dei big data si è scritto tutto e il contrario di tutto, ma nell’ambito dell’amministrazione della cosa pubblica una buona ipotesi di lavoro per definire i big data potrebbe essere questa: uno strumento per prendere decisioni democratiche con la stessa efficacia di un tiranno. I tiranni hanno fatto buona architettura, e a volte perfino buona urbanistica, perché avevano la facoltà di prendere decisioni complesse senza curarsi troppo delle conseguenze: demolire un quartiere per costruirne un altro, espropriare terreni, imporre un’estetica. I big data, almeno nella loro forma ideale, dovrebbero dare al governo democratico la stessa facoltà: quella di prendere decisioni complesse curandosi però delle conseguenze.

La tecnologia trasforma le città in esseri senzienti, e quando i dati raccolti sono abbastanza e ben processati è possibile sentirle parlare, queste città, sentirle rumoreggiare, capire le loro esigenze, dove intervenire, dove restaurare e dove costruire – è possibile fare buona urbanistica, insomma, e magari perfino buona architettura. Queste città senzienti sono di solito definite smart. È questa, smart city, la seconda parola abusata che leggerete in questo articolo.

Proviamo a definire anche smart city. Un tentativo potrebbe essere: le smart city sono città che comunicano – con gli amministratori, i cittadini, tra loro. Sono città i cui bisogni, cambiamenti, possibilità strutturali sono espressi grazie alla tecnologia in un linguaggio comprensibile agli esseri umani. È lo stesso processo che regola l’Internet of things (è la terza e ultima parola abusata che leggerete in questo articolo): si prende un oggetto e lo si vivifica con un chip e una connessione a Internet, inserendolo in uno spazio in cui tutto è connesso e tutto parla un linguaggio che, se non è il linguaggio naturale, è quanto meno intelligibile. Quando questo spazio è esteso al livello della città, si parla di smart city. E dunque: città che comunicano, quartieri che comunicano, case e palazzi che comunicano, tavoli, sedie e lampadine che comunicano, tutti inseriti nello stesso spazio connesso.

© EDF – Getty Images

Unità di misura minima di una smart city sono gli edifici. Sappiamo che l’Internet of things è ormai entrata nelle case, che le abitazioni sono connesse, ma se nella città intelligente tutto comunica, allora devono parlare anche i muri (pun intended). Uno dei progetti più interessanti a livello internazionale in questo senso è stato realizzato da Edison, la più antica azienda dell’energia in Europa. La tecnica che fa parlare i muri si chiama BIM, Building Information Modeling, ha iniziato a diffondersi negli Stati Uniti una quindicina di anni fa, ed Edison la realizza in Italia in collaborazione con lo studio di architetti Magnoli & Partners di Cremona. Il fondatore, l’architetto Gian Carlo Magnoli, spiega a Klat che BIM “è un metodo di progettazione mutuato dalle industrie automobilistica e aeronautica, il cui scopo finale è, appunto, quello di trasformare la casa in un prodotto industriale simile a un’automobile: dotato di costi fissi, di prestazioni controllabili in qualunque momento e capace di avvertirci quando è ora di fare il tagliando”. “Un modello di progettazione in BIM è un’esperienza di realtà virtuale: in pratica, usando gli occhiali specifici è possibile entrare nell’edificio prima ancora che sia costruito”, continua Magnoli. “Nella realtà virtuale si può passeggiare per le stanze, e toccando le pareti viene detto come sono fatte, quanto costano, che prestazioni energetiche hanno”. In fase di costruzione, “il cantiere diventa il luogo dell’assemblaggio, non più il luogo della costruzione, e questo consente di avere tempi e costi sempre certi e costanti”. Inoltre, l’edificio viene dotato di una serie di sensori e di segnali di controllo che dialogano con il modello virtuale e rendono la manutenzione straordinaria un evento ordinario. “Se per esempio si rompe una lampada in una casa, i sensori allertano contemporaneamente le compagnie dell’energia e il manutentore”, dice Magnoli. “Ed entrando nel modello virtuale, il manutentore saprà immediatamente quale lampada si è rotta, in quale stanza, se è presente o meno nel suo magazzino, e perfino se serve una scala per rimontarla”. Edifici che parlano, appunto.

BIM per struttura complessa in acciaio e vetro. Progetto realizzato da Magnoli & Partners.

Le società di energia come Edison hanno un ruolo fondamentale nella promozione dell’edilizia smart per due ragioni: in primo luogo, perché anche le case intelligenti hanno bisogno di energia, meglio se intelligente; in secondo luogo, per il fatto che grazie al BIM è possibile alimentare un mercato dell’efficientamento edilizio dalle prospettive straordinarie.

“Basti pensare che, secondo il Centro Ricerche Cresme, in Italia l’84 per cento degli edifici non è a norma o ha più di 40 anni”, afferma Magnoli. “Questo comporta sprechi energetici per milioni, probabilmente miliardi di euro ogni anno”. Ci sarebbe bisogno di un lavoro immane, che però si scontra con un mercato in cui l’accesso al credito è limitato e il settore dell’edilizia in crisi: “Si guardi intorno in città”, continua Magnoli, “ci sono ormai poche gru”. La soluzione adottata da Edison è quella del finanziamento con risparmio: i progetti di costruzione o di efficientamento, che grazie al BIM hanno costi e prestazioni fissi e prevedibili, richiedono investimenti che hanno ritorni garantiti nel momento in cui diventa possibile contabilizzare in maniera certa il risparmio generato.

La casa elettrica, commissionata dalla società Edison per la IV Triennale di Monza del 1930 e realizzata dal Gruppo 7 (Luigi Figini, Gino Pollini, Guido Frette e Adalberto Libera in collaborazione con Piero Bottoni).

Per Edison, in un momento in cui nel mondo si cercano soluzioni innovative alla questione sempre presente del fabbisogno energetico, diventa necessario investire su energia smart e fornire servizi che siano anch’essi capaci di comunicare, per così dire, all’interno di uno spazio in cui tutto è connesso. La nuova missione riguarda dunque l’efficientamento e la fornitura di servizi energetici in grado di animare le smart city. Fin dagli anni Trenta, dallo studio della Casa Elettrica ispirata da Gio Ponti e realizzata dal Gruppo 7, con la collaborazione di Piero Bottoni, Edison ha sempre dedicato un’attenzione particolare alla progettazione degli spazi urbanistici e delle abitazioni. Con lo stesso spirito oggi ha creato (o acquisito) alcune società ad hoc, come Edison Energy Solutions, che si occupa nello specifico di efficientamento; Fenice, che offre soluzioni di efficienza energetica nei servizi ambientali come la gestione dei rifiuti industriali, le bonifiche, le analisi di laboratorio e così via; Citelium, che si occupa di illuminazione pubblica, segnaletica stradale, videosorveglianza; Comat Energia, specializzata nel teleriscaldamento urbano a biomassa; Dalkia, che presta servizi tecnici come la gestione della catena energetica e lo sviluppo della produzione di energia decentralizzata. Insomma, il pacchetto completo della smart city: dai semafori al riscaldamento ai rifiuti, fino alla lampadina di casa.

Starter kit di Edison Smart Living.

Manca l’interno degli edifici, ovviamente. Qui le tecnologie sono più accessibili rispetto al BIM e alle alchimie dell’edilizia intelligente. Sono più note. Tutti conosciamo qualche applicazione dell’Internet of things alle abitazioni, che si tratti della bilancia con wifi o dei celebri assistenti domestici di aziende americane come Amazon e Google. Meno scontato, forse, il fatto che la domotica, l’automatizzazione dei servizi di casa, non serve solo per parlare con un’intelligenza artificiale e chiedere a Siri o ad Alexa che tempo farà domani. Se gli assistenti digitali americani parlano il linguaggio naturale, ci sono altri esempi di domotica che consentono alle case di comunicare in maniera altrettanto se non più utile. Edison ha presentato pochi mesi fa Smart Living, un “kit di partenza” che contribuisce a rendere la casa più intelligente. Ha un gateway, vale a dire un dispositivo dotato di videocamera, sirena d’allarme, batteria d’emergenza e capace di controllare tutti i device connessi presenti in casa. Tra questi, una spina smart, che permette di controllare accensione e spegnimento degli elettrodomestici, un sensore di movimento, che rileva il passaggio delle persone, il livello di luminosità e la temperatura nelle stanze, e un sensore che rileva se le porte e le finestre sono aperte o chiuse. Ci sono altri sensori ancora, alcuni di terze parti, come per esempio quello che individua la presenza di acqua sul pavimento a causa di una perdita, il sensore di fumo, il termostato e le lampadine intelligenti. Tutto è controllato dal gateway il quale, a sua volta, è controllato attraverso app. E all’intelligenza si aggiunge la sicurezza, con un servizio di assistenza attivo 24 ore su 24 che interviene sui guasti agli impianti elettrici (Edison Casa Relax), e l’efficienza, con il monitoraggio trasparente dei consumi (Edison World Luce e Gas).

E qui inizia a crearsi un quadro più complessivo di come può diventare per davvero un edificio-abitazione smart. Progettato in BIM con costi e tempi certi, dalle fondamenta ai solai, ha sensori che ne rilevano problemi, inefficienze, perdite energetiche, e ha un modello in realtà virtuale che consente di risolvere ogni pecca con facilità. Al suo interno, la casa smart gode dell’efficienza e del controllo delle fonti di energia data dalla connessione di tutti i device, anche quelli che non nascono smart, vivificati dall’Internet delle cose. Non dimentichiamo, poi, che un edificio smart non ha problemi a essere bello. L’abbiamo chiesto esplicitamente all’architetto Magnoli: ma questi edifici progettati in BIM, assemblati e non costruiti, sono belli quanto gli edifici normali? Magnoli è parso quasi risentito. Ovviamente, ha risposto, e ci ha spiegato che se un bravo architetto progetta in inchiostro su foglio di carta o in BIM poco cambia. Mettiamola così: dal punto di vista industriale, il BIM nasce, come abbiamo già detto, dalle industrie aeronautica e automobilistica, la cui attenzione al design è leggendaria. Dal punto di vista tecnologico, basta vedere la cura al dettaglio dei migliori prodotti delle case tech della Silicon Valley.

Non siamo andati fuori tema. Belli e utili gli edifici con i muri che parlano, i tagliandi alle case, l’efficientamento energetico, il gateway wireless per la domotica. Ma qui si parlava di urbanistica e democrazia, architettura e tirannide. Ci arriviamo facilmente, perché basta immaginare il nostro edificio-abitazione smart immerso in un oceano di altri edifici smart, tutti connessi tra loro, ed ecco che abbiamo la smart city, a sua volta resa funzionante da flussi di energia intelligente per la segnaletica stradale, la gestione dei rifiuti, i grandi servizi urbani. Esattamente come è più facile gestire una casa quando è tutto a portata di un’unica app, è più facile gestire una città se tutti i suoi elementi (gli edifici) e tutti i suoi servizi sono collegati tra loro, smart e capaci di fornire input.

Ma dov’è la democrazia? Nell’accesso. Il patrimonio di informazioni raccolto dalla smart city può essere reso disponibile a ogni cittadino attraverso le tecnologie digitali, e ogni cittadino può contribuire alle decisioni da prendere o monitorarle. Un candidato in un’elezione, locale o nazionale, può per esempio usare il BIM per mostrare ai suoi elettori la propria visione urbanistica e non solo di una città o di una regione, e chiedere che sia messa ai voti. Questa visione non avrebbe i contorni sfocati di una promessa, ma le caratteristiche definite e razionali di un progetto ingegneristico. Meglio di qualunque programma elettorale.

BIM per Porta Nuova a Milano (con arch. Piuarch). Cantiere realizzato da Magnoli & Partners.

BIM per Kilometrorosso (con arch. Jean Nouvel e Richard Meyer). Cantiere realizzato da Magnoli & Partners.

BIM per edificio storico esistente. Progetto realizzato da Magnoli & Partners.

BIM per edificio storico esistente. Progetto realizzato da Magnoli & Partners.


Eugenio Cau

È nato a Bologna, si è laureato in storia, scrive per gli esteri de Il Foglio. Da quando vive a Roma gli manca la nebbia. È un ottimista tecnologico e ama i gadget. Ha una passione per la Cina, cerca con fatica di imparare il mandarino.


Lascia un commento