Francesco Albini
Questioni di metodo

13 Novembre 2017

Franco Albini vive ancora in una tipica architettura dei primi del Novecento, in zona Monti, a Milano. Per trovarlo, basta oltrepassare il breve portico a colonne all’ingresso di via Telesio 13, sede originaria dello studio dove lavorava con Franca Helg dal 1963, e immergersi nel suo archivio: circa 22.000 disegni, oltre 6.000 foto d’epoca e 2.500 diapositive, modelli, scritti, lettere, relazioni tecniche, libri e riviste. Dal 1929 a oggi. È il patrimonio della Fondazione Albini, nata dieci anni fa, per divulgare il metodo di lavoro e la forma mentis di uno dei più grandi maestri dell’architettura moderna italiana – scomparso proprio quarant’anni anni fa, il primo novembre 1977. Ma non c’è solo storia tra queste pareti. Ci lavorano anche il figlio Marco e il nipote Francesco, che hanno raccolto il testimone di un modo di progettare “onesto ed etico” professato da un architetto che preferiva essere chiamato artigiano. È Francesco ad aprirmi la porta di questo luogo sacro del razionalismo. Quarantasette anni, fisico asciutto e modi cortesi, sguardo attento e parole misurate. Osservandolo, è immediato pensare al celebre nonno, figura esile e dal portamento elegante, descritto come un uomo silenzioso, riservato e rigoroso. Mancano solo i baffi. Glielo confesso quasi subito, dopo che ci siamo seduti in una delle stanze della Fondazione, regno della sorella Paola.

Marco e Francesco Albini, Milano, 2000.

Marco e Francesco Albini, Milano, 2000. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Non sarò la prima persona a scorgere delle somiglianze.

Non sei la prima, in effetti. Io ne ho preso coscienza in una fase avanzata della vita. Non ho mai cercato di emularlo, né professionalmente né a livello personale. È arrivato tutto un po’ alla volta. Avevo sette anni quando è morto e non ho tanti ricordi di lui. So per certo che non era molto espansivo e che era di poche parole. Mio padre, che ha lavorato con lui da quando aveva trent’anni, mi racconta di lunghi viaggi in auto nei quali non apriva bocca: restava immerso nei suoi pensieri. Lo descrive come un uomo integerrimo, inflessibile, ma non così duro come alcuni sostengono. Non imponeva mai una scelta, né in famiglia né sul lavoro. Era molto rispettoso di tutti. Un suo assistente dice che lui non interveniva mai sui disegni, non esprimeva giudizi, al massimo faceva una nota su un angolino e ti chiedeva perché avevi agito in quel modo.

Gli bastava conoscere i motivi della scelta.

Pare che i suoi “perché?”, pronunciati con la erre arrotata, fossero una nota ricorrente in studio, un mantra, che poi veniva usato per rifargli il verso.

Continuiamo con i perché. Perché hai scelto di diventare architetto?

Al momento di decidere quale percorso di studi intraprendere non avevo le idee chiare. Poi ho fatto una lista di quello che mi poteva piacere e ho capito che l’architettura aveva sia un lato creativo sia razionale, tanti aspetti potenzialmente interessanti, e ci ho provato.

Franco, Marco e Francesco Albini, 1973 circa.

Franco, Marco e Francesco Albini, 1973 circa. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Non sentivi il peso dell’eredità familiare?

Non mi sono sentito avvantaggiato o svantaggiato per il cognome che porto. Credo che, rispetto al passato, oggi si guardi di più ai fatti che ai cognomi.

Tuo nonno era un appassionato sciatore e ho scoperto che anche tu ami la montagna.

Quella per l’arrampicata, che è praticamente un secondo lavoro per me, è una passione sbocciata dopo quella per il tennis, passando per lo sci. Un’eredità tardiva.

Un’altra caratteristica curiosa di tuo nonno è che non ha mai avuto case di proprietà, ha vissuto sempre e solo in affitto. 

Era convinto che la proprietà rendesse schiavi, cosa che io condivido pienamente. Non voglio avere troppi vincoli, troppe cose da gestire.

Hai ricordi della sua casa? 

Molti di quella in via De Grassi, una traversa di via De Togni. È anche l’ultimo luogo in cui l’ho visto: ho scolpito nella mente l’immagine di lui a letto malato, il giorno prima che morisse. Mia nonna ha continuato a vivere in quella casa anche senza di lui, ha solo cambiato piano.

Questo è un anno importante di ricorrenze: il primo novembre di quarant’anni fa moriva Franco Albini, dieci anni fa nasceva la Fondazione che, per celebrare il suo genio, ha organizzato molti eventi per tutto il 2017.

L’attività della Fondazione, che è nelle mani di mia sorella Paola, mira a diffondere un’eredità, un pensiero, una maniera di lavorare. Un archivio come questo non può e non deve essere polveroso. Per questo il palinsesto delle iniziative 2017 aveva come titolo Il segno tra ieri e domani. Mio nonno ha vissuto in un’epoca in cui c’era molto da fare, stava nascendo il linguaggio moderno, animato da un profondo spirito etico. L’idea era quella che il proprio mestiere fosse al servizio della società. Il razionalismo riduce tutto all’essenzialità, sottende un atteggiamento profondamente morale che trovo molto attuale, visto che stiamo vivendo un momento di perdita di senso collettivo.

Marco e Franco Albini in casa Albini, via Aristide de Togni, Milano, 1959. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Qual era lo spirito di questi eventi?

Cercare di trasmettere lo stile e la mentalità di Albini utilizzando linguaggi diversi e allargando il target di riferimento. La Fondazione ha indetto, per esempio, un concorso di grafica per giovanissimi che aveva l’obiettivo di individuare il logo per i dieci anni da accostare a quello disegnato da Bob Noorda; ha organizzato laboratori per far conoscere ai bambini l’origine dei suoi progetti e il valore della curiosità; ha messo in scena lo spettacolo Il coraggio del proprio tempo, ideato da Paola e tratto dalle lettere che Giuseppe Pagano scrisse dal campo di concentramento, e quello dedicato a Franca Helg, grande simbolo di emancipazione femminile; ha allestito una mostra delle foto dei suoi viaggi e altro ancora. Il programma si è chiuso in Triennale, a metà ottobre, con un evento che ha anticipato le attività del 2018. Abbiamo infine presentato il documentario Franco Albini – Uno sguardo leggero al Milano Design Festival, poi trasmesso su Sky Arte tra la fine di ottobre e i primi di novembre.

Franco Albini sosteneva che il talento stava nel fare, più che nel formulare teorie: “È più dalle nostre opere che diffondiamo delle idee che non attraverso noi stessi”. Quale tra i tuoi lavori ritieni che racconti meglio la tua visione?

Il progetto del nuovo centro logistico e operativo Rolex a Milano. Originariamente dovevamo ristrutturare gli edifici della ex fabbrica Turati Lombardi degli anni Cinquanta, ma gli studi di fattibilità hanno dimostrato che non ne valeva la pena, ci sarebbero stati troppi problemi funzionali. Abbiamo demolito tutto e costruito ex novo, ripensato sia la distribuzione interna sia le funzioni, mantenendo la sagoma dei due volumi originari, uno leggermente sfalsato rispetto all’altro: era l’unico vincolo posto dal piano regolatore.

Nuova sede logistica Rolex, Milano. Progetto Studio Albini Associati, 2016.

Passando da viale Filippetti non si penserebbe certo di trovarsi di fronte a una fabbrica. La facciata è ultramoderna, tutta vetro e acciaio.

Siamo partiti dalla funzione. Due dei tre piani fuori terra ospitano i laboratori, la cui esigenza primaria è avere un perfetto controllo della luce naturale, fondamentale per il lavoro minuzioso degli orologiai. Abbiamo optato per una doppia pelle in vetro stratificato: una vetrata interna che assolve alla funzione termica ed acustica e una esterna fatta di pannelli frangisole verticali motorizzati, che cambiano angolazione con lo spostarsi del sole e che, in caso di incendio, si aprono per fare uscire il fumo. È un sistema molto complesso e unico che ha richiesto un anno di prove. L’elemento identitario di Rolex, l’acciaio, è posto tra i due vetri che formano i frangisole: è una lamina microforata spessa un millimetro che non impedisce la visione verso l’esterno. L’acciaio rimane così materia viva, perfettamente scintillante, senza bisogno di manutenzione. Anche il sistema di fissaggio dei pannelli è customizzato: abbiamo usato delle rotule, ma forando il solo vetro interno per non appesantire visivamente la facciata, dato che avevamo 1.000 pannelli di 4 metri di altezza per 30 cm, molto ravvicinati.

Un’opera di artigianato razionalizzato, in stile Albini.

Con l’aggiunta di un lato scenografico e funzionale: di notte, all’interno di questa doppia pelle si accendono le luci, anche colorate, e automaticamente scendono delle tende microforate che proteggono l’interno, mantenendo la riservatezza del luogo.

Atrio della nuova sede Rolex, Milano, con le poltroncine Tre Pezzi disegnate da Franco Albini e Franca Helg. Progetto Studio Albini Associati, 2016.

Quanta parte ha nel tuo lavoro lo studio sui materiali?

È sempre stato importante. Anche in un progetto di recupero e restauro di un’architettura storica come il Monastero di Cairate abbiamo sperimentato molto per realizzare delle travi in vetro stratificato che non appesantissero la struttura. Dove non c’erano gli elementi per ricostruire, abbiamo ideato un volume dal linguaggio più moderno in vetro, con bris soleil in larice che lasciano intravedere le antiche strutture murarie del chiostro. Sono tutti elementi studiati con degli esecutori specializzati.

È un modo, il tuo, molto pragmatico di intendere il mestiere dell’architetto.

Se non possiedi gli strumenti tecnici, puoi parlare tanto, ma non vai lontano. Forse anche per questo ho amato molto lavorare, dopo la laurea, da Renzo Piano, che ha scelto di definire building workshop il proprio studio RPBW. In un laboratorio si fa ricerca, si lavora per prove ed errori. Mi è sempre interessato lo studio del dettaglio e delle tecnologie per indagare i singoli elementi che compongono l’architettura: ogni edificio è fatto di tanti pezzi che vengono composti e disegnati minuziosamente. Il metodo di Albini era questo: scomporre il progetto, studiarne le componenti e ricomporre tutto insieme in una forma innovativa coerente con la funzione.

Dettaglio dei brise-soleil in vetro e acciaio motorizzati, nuova sede logistica Rolex, Milano. Progetto Studio Albini Associati, 2016.

Di che cosa ti sei occupato da Piano?

Del recupero dell’area di Potsdamer Platz a Berlino e di una mostra a Genova sul suo lavoro. Ero uno stagista, forse la posizione migliore per apprendere molto senza avere grandi responsabilità.

Piano è stato anche allievo di tuo nonno.

Ha lavorato proprio in questo studio e ricorda questa sua prima esperienza come una base solida per quanto riguarda la tipologia e il metodo di lavoro.

Lo hai incontrato di nuovo, virtualmente, nel concorso per la ristrutturazione delle aree della ex Fiera del mare a Genova, con i giganteschi padiglioni di Jean Nouvel, che si riallacciava a un master plan curato da Piano.

Volevamo ricollegare il fronte mare, che era andato perso, alla città, superando la cesura imposta dal bastione lungo corso Marconi tramite un ponte pedonale che si connettesse con i tetti dei nuovi edifici oggetto del concorso. Da lì saremmo scesi verso il mare, dove si trovavano le attività commerciali e i servizi per i residenti e per la nautica. I tetti piani dei nuovi edifici sarebbero diventati un nuovo spazio urbano pubblico, con orti e giardini e punti di ristoro. Il condizionale è d’obbligo perché si è trattato di un concorso all’italiana con nessun vincitore. È stato comunque un modo per fare ricerca. Potrà servirci in futuro.

Altri architetti di cui apprezzi il lavoro?

Quelli che rispettano il contesto in cui inseriscono i propri edifici come Kengo Kuma, o che realizzano progetti sobri come SANAA e il suo Rolex Learning Center. Quelli cioè che non impongono una scultura fine a se stessa incapace di instaurare una relazione armonica con il territorio.

Come valuti CityLife?

La boccio. È stata un’operazione puramente speculativa con edifici residenziali fuori scala, altezze assurde rispetto al contesto. Volumetrie talmente vicine, in alcuni punti, non si trovano neppure nelle periferie più abbandonate. Non mi piace neppure esteticamente: vedo torri e transatlantici piazzati nel vuoto, sembra di essere in un set di Blade Runner. Stessa cosa a Porta Nuova: scatoloni di vetro senza qualità.

Allestimento della Galleria Sabauda, Palazzo Reale di Torino. Progetto Studio Albini Associati, 2004-2014.

Li vicino c’è la Fondazione Feltrinelli. Bocciata anche quella?

Ha un volume molto importante, ma dialoga con il contesto. È un’interpretazione delle case milanesi con i tetti a doppia falda. Herzog & de Meuron sono molto “scenografici”, come architetti, ma hanno una grande sensibilità.

Altri promossi a Milano?

La darsena è un intervento più che positivo. Il fatto che ora sia così frequentata significa che mancava uno spazio pubblico a bordo acqua. L’impatto sul naviglio è stato minimo, i progettisti hanno fatto ordine e pulizia. Peccato non sia stato realizzato il collegamento fluviale con la fiera di Rho che era in programma ai tempi di Expo. Anche la Fondazione Prada mi piace molto, ho apprezzato il lavoro di integrazione tra i volumi recuperati e le nuove aggiunte. Mi piace anche la torre d’oro: nonostante sia un po’ kitsch, è un segno nella città, un faro.

Ma pecca sul fronte manutenzione. La foglia d’oro del rivestimento non dura molto.

Gli aspetti legati alla durata sono complessi. Anche certi edifici di Piano sono poco curati sotto questo profilo: dopo un anno o due sono segnati. Basti pensare alla sede de Il Sole 24 Ore. Le tende esterne che scorrono per fare da filtro al sole erano una bella idea, ma il color verde acceso dell’inaugurazione si è sbiadito da tempo, la luce ha cotto il tessuto. Dovrebbero cambiarle in continuazione. La colpa è anche del committente: se avesse avuto forte in mente l’idea di durabilità senza costi eccessivi di manutenzione, avrebbe chiesto al progettista di ingegnarsi.

Franco Albini, poltroncina PT1 Luisa, produzione Poggi, 1950-55, riedizione Cassina, collezione I Maestri, 2008. Al progetto definitivo Albini arriva dopo quindici anni di continue elaborazioni e cinque edizioni (1939, 1942, 1949, 1950, 1955). Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Franco Albini, Gino Colombini, poltrona Margherita, produzione Vittorio Bonacina, 1955. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Franco Albini, differenti versioni e finiture per la poltroncina PT1 Luisa, produzione Poggi, 1950-55, riedizione Cassina, collezione I Maestri, 2008. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Franco Albini in arrampicata, anni Cinquanta. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Franco Albini, poltrona Fiorenza, disegnata nel 1940 per la VII Triennale di Milano, prodotta da Arflex nel 1952 e da Poggi nel 1967. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Franco Albini e Franca Helg, poltrona PL19 Tre Pezzi, produzione Carlo Poggi, 1959. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Franco Albini e Franca Helg, Padiglione Olivetti, Expo Italia ‘61, Torino 1961. Courtesy: Fondazione Franco Albini.

Franca Helg e Franco Albini con i collaboratori di studio, Milano, 1961. Courtesy: Fondazione Franco Albini.


Loredana Mascheroni

Giornalista, pratica il design da sempre. Appassionata di arte contemporanea e architettura, lavora a Domus dal 1997 dopo un apprendistato decennale in riviste di settore e un esordio come giornalista TV che le ha lasciato un debole per le video interviste. Fa yoga e corre, per sciogliere le tensioni da tablet.


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